Dal 16 al 27 gennaio a Trento ha avuto luogo Living Memory, il Festival della Memoria, organizzato dall’associazione “Terra del Fuoco Trentino”. Il tema di questa terza edizione, la prima in presenza, è stato (s)persone – La privazione dell’essere. Tra le tante attività, molte pensate per le scuole, soprattutto gli incontri con sette testimoni che hanno vissuto la persecuzione razziale in quanto ebrei, venerdì 20 gennaio Patrizia Cacciani, Elena Tonezzer e Sara Zanatta, moderate da Carola Messina, hanno dato vita all’incontro Donne in “luce”? Un dialogo tra immagini e storia. Al centro dell’incontro due filmati dell’Archivio Storico Luce: il documentario L’Accademia dei vent’anni del 1942 e il cinegiornale de «La Settimana Incom» La donna in Italia del 1958. Due documenti audiovisivi che permettono di analizzare il modo in cui la figura della donna e il suo ruolo nella società, almeno a livello di rappresentazione, siano restati incasellati in stereotipi e false legittimazioni, nonostante il passaggio dal Fascismo alla Repubblica. Tra il mondo dello sport e quello del lavoro, tra l’affermazione del gruppo e l’accento sull’individualità, le donne sembrano restare figurine da scambiarsi nelle mani degli uomini. Durante l’incontro Patrizia Cacciani ha approfondito gli oggetti filmici. Mentre Elena Tonezzer e Sara Zanatta si sono interrogate sui contenuti e sui meccanismi di narrazione. Abbiamo scelto di pubblicare le loro due analisi che diventano due esempi possibili per guardare e “smontare” i filmati storici.

L’ACCADEMIA DEI VENT’ANNI (1942)
di Elena Tonezzer
Il film L’accademia dei Vent’anni del regista Giorgio Ferroni si presta in modo particolare a mostrare la distanza tra ciò che viene ripreso e la realtà storica.
Protagonista del film del 1942 è l’Accademia femminile fascista di educazione fisica, fondata giusto dieci anni prima per formare giovani istruttrici di educazione fisica.
L’accademia si trovava ad Orvieto, è stata poi distrutta dai bombardamenti, e il paesaggio bucolico che la circonda ha un’importanza simbolica. Il Fascismo aveva molto insistito sulla retorica della campagna come il luogo capace di incarnare i valori migliori della patria fascista, contrapposta alla città. La realtà dell’Italia del 1942 è quella di un paese in guerra da due anni, ma nulla lascia presagire questo sfondo tragico. Le ragazze festanti, che percorrono le stradine di campagna in una sorta di falange fiorita e canterina, danno subito un’immagine di campagna produttiva, di fertilità (anche femminile), di benessere, tutti elementi molto distanti dalla realtà che si trovava fuori dalle sale cinematografiche.
Chi vedesse questo filmato senza sapere quale era la considerazione del regime dello sport femminile potrebbe pensare a un significativo protagonismo. Anche in questo caso siamo distanti dalla realtà, a cominciare proprio dall’Accademia femminile fascista di educazione fisica, che si trova distante da quella maschile, collocata nella capitale, a Roma. Le ragazze e le istitutrici che si vedono non parlano mai, non esprimono un punto di vista, non esistono come soggetti ma solo come corpo accademico o meglio – per un usare il diminutivo dell’epoca – come “orvietine”.
Nell’aprile 1932 si erano inaugurati i littoriali dello sport per universitari a Torino. Alla prima edizione le studentesse erano state escluse, parteciparono solo a una partita di basket che non faceva parte del campionato. Nel settembre dello stesso anno e sempre a Torino si tennero i giochi mondiali universitari, ai quali parteciparono anche le ragazze, che ottennero anche alcuni successi. In realtà non si trattava di studentesse, ma di sportive scelte tra le più talentuose per ottenere un risultato utile nel confronto con le altre nazioni che partecipavano. Per capire la scarsa considerazione del regime per lo sport femminile, è significativo che pochi giorno dopo la fine della manifestazione, Mussolini abbia ricevuto a palazzo Venezia i vincitori e non le vincitrici, che non godettero di nessuna attenzione dei media.
Solo la prospettiva delle Olimpiadi di Berlino tiene aperta la possibilità dello sport femminile, nella speranza che porti qualche medaglia. Il gerarca Achille Starace sostiene addirittura che lo sport femminile è solo un male necessario e che è opportuno lottare perché venga tolto dalle competizioni internazionali.
Lo sguardo strabico con cui la gerarchia del regime guarda allo sport praticato dalle ragazze è leggibile anche nel filmato di Giorgio Ferroni, che ripercorre una giornata tipo della vita delle “orvietine”, dalla mattina allo spegnimento delle luci nelle camerate.
Le ragazze sono toniche, con divise che lasciano le gambe nude, indossano il costume da bagno, vanno in bicicletta. Questa immagine moderna e disinibita è bilanciata da altri momenti che rassicurano il pubblico, mostrando atteggiamenti e aspirazioni tradizionali. A fianco alle riprese degli allenamenti, si vedono le allieve che frequentano la messa, che aiutano la gestione della scuola, che si esercitano come maestre (madri), soprattutto che aspettano con ansia le lettera da casa, sintomo di un legame forte con la famiglia e con i fidanzati. Alla fine del film si vedono anche dei confetti nuziali, presagio di un matrimonio imminente.
Il regista ci mostra delle giovani donne atletiche, ma che non rinnegano nessuno dei valori della famiglia e della natalità propagandati dal fascismo. La stessa ginnastica o le pratiche fisiche in genere quando riservati alle donne non servivano tanto a ottenere risultati nelle competizioni (che il regime vedeva poco adatte alle ragazze), né aveva come obiettivo la loro salute. Ciò che contava era la salute di madri in grado di procreare numerose volte e bambini sani. La componente demografica di questo linea politica era funzionale soprattutto nella propaganda imperialista delle colonie. Non è forse un caso che le canzoni che si ascoltano nel filmato rimandino nelle sonorità all’esotismo africano, e richiamino l’osannato impero fascista.
Mentre quell’impero sta andando in frantumi e la popolazione civile conosce privazioni e lutti, il film dipinge la felice vita delle ragazze come un susseguirsi di cambi d’abito, di pranzi e merende, di risate e esercizi nella natura.
Anche le scelte delle discipline praticate propone un messaggio di novità e contemporaneamente di rassicurazione. Le riprese si dilungano sugli esercizi di gruppo, in cui i movimenti dei corpi sono estremamente controllati e per lo più armonicamente svolti a comporre delle composizioni. Sono pochi i minuti dedicati a sport potenzialmente competitivi e a corpo libero, come la corsa, il lancio del peso o il basket.
Gran parte delle immagini dedicate alle attività fisiche sono corali: che siano in palestra, in piscina o sui prati (e qui il rimando all’antica Grecia è esplicito anche per la tunica) tutte si muovono insieme, secondo uno schema che può essere militare o estetico. La singolarità svanisce, è il gruppo ad avere la meglio nell’immaginario proposto dal regista.
Mentre lo sguardo di chi vede è esclusivamente maschile (il regista, la troupe e le gerarchie del regime), oggetto delle cineprese sono solo corpi femminili, perfino nell’asilo ci sono solo bambine e non bambini. Questa assolutizzazione del gruppo femminile deforma ulteriormente il confronto con la realtà, dominata invece dal potere patriarcale di una piramide di gerarchi che culmina nel duce. Separate e ininfluenti, le “orvietine” sono ridotte a comparse della Storia, rappresentate come semplici e ilari figure in un ambiente rurale atemporale, il cui unico compito è aspettare le lettere dei fidanzati in attesa dei propri confetti e di poter contribuire alla patria generando tanti piccoli “balillini”.
Per approfondire si vedano:
E. Fonzo, Il nuovo goliardo. I Littoriali dello sport e l’atletismo universitario nella costruzione del totalitarismo fascista, Canterano, Aracne, 2020.
M. Giani, Ondina e le ondine. Questione di raffigurazione (verbale e iconografica) della donna sportiva nell’Italia fascista (1933 ca.), in «Italianistica Debreceniensis», volume XXIV, 2018, pp. 140-160, <https://ojs.lib.unideb.hu/itde/article/view/4667/8958>, ultima consultazione: 10/01/2023.
G. Gori, Italian Fascism and the Female Body. Sport, Submissive Women and Strong Mothers, Londra, Routledge, 2004.
LA DONNA IN ITALIA (1958)
di Sara Zanatta
La donna in Italia è un numero unico de «La Settimana Incom», cinegiornale nato nel 1946 e proiettato nelle sale cinematografiche prima dell’inizio dei film. Questo “servizio di attualità” è curato dal regista Giovanni Roccardi, ex ufficiale di marina, poi fotografo e regista.
Il documento visivo può essere analizzato come testimonianza del suo tempo e al tempo stesso come suo riflesso: le immagini ci mostrano com’era la società ma soprattutto come si auto-rappresentava.
Siamo nel 1958. La guerra è finita da un pezzo e il difficile periodo della ricostruzione ha lasciato spazio a un tempo nuovo, il “boom economico”, in cui l’Italia aggancia le economie più avanzate. Il filmato racconta un fenomeno di attualità, che evidentemente colpiva l’opinione pubblica: il lavoro femminile cambia radicalmente e fa la sua comparsa la lavoratrice moderna.
Come viene documentata questa novità? Distinguiamo tre livelli di analisi: informativo, visivo e discorsivo.
Sul piano dell’informazione, si evita di spiegare il fenomeno nei suoi risvolti numerici e si costruisce una narrazione coi toni della “fiaba culturale”. Non si usano dati – dal 1954 al 1959 il numero di lavoratrici italiane cresce da 4.46 a 6.24 milioni – né spiegazioni: «ultime nelle assunzioni, prime nei licenziamenti, le donne si addensano nelle mansioni più basse»[1]. Si appiattisce la situazione del Paese a un unicum geografico, mentre ben sappiamo che il lavoro extradomestico femminile è localizzato nelle aree metropolitane e nel Nord Italia e le casalinghe al Sud sono spesso anche lavoratrici in nero, occasionali, precarie[2]. Un aspetto evidente già nel titolo, con quel singolare, la donna, che annulla le differenze a fronte invece di un fenomeno ben più complesso. Si snocciola un rosario di professioni e mestieri in cui sono impegnate le donne in un mix di esotismo e tradizione – dalle hostess alle vigilatrici e puericultrici – tenendo insieme ambiti in cui sono effettivamente più occupate, come il tessile, l’agricoltura e l’insegnamento, con settori in cui sono in quel momento non solo residuali ma anche discriminate per legge e/o per contratto[3]. Ad esempio, a proposito delle professioni, si sottolinea la presenza delle donne in Corte d’assise, ma si omette l’accesissimo dibattito collegato, peraltro ancora in corso per le magistrate. Nel 1956 le donne sono infatti ammesse in Corte d’assise e al Tribunale dei minori ma con riserva: nelle giurie di 6 persone non possono essere in maggioranza e gli avanzamenti di carriera per concorso restano riservati ai maschi. Alla Camera, il democristiano Valdo Fusi si distingue per aver affermato (con la debita premessa di amare e rispettare le donne!): «se le facciamo entrare in Corte d’assise, vorranno fare anche il servizio militare. Immaginate una fanciulla di vent’anni alla leva. Dice al fidanzato: abile. E magari il fidanzato è riformato. Perderemmo così tutta la loro poesia e dolcezza. Io mia moglie, mia sorella, mia madre, in artiglieria da montagna non le voglio e perciò neanche in Corte d’assise»[4].
Tutte le informazioni sono senza contesto: non viene mai detto perché tutto questo stia accadendo né quali altre tendenze caratterizzino il mondo del lavoro. Paradossalmente, l’unico contesto storico è nell’incipit del servizio: «Vi presentiamo delle signore di 50 anni fa all’inizio della lotta per l’emancipazione». Poi il vuoto. Sono rimosse le guerre mondiali e il Fascismo, al punto che l’Opera nazionale maternità e infanzia sembra un’istituzione dell’Italia repubblicana, mentre è un ente assistenziale creato nel 1925.
A restituire una realtà semplificata e senza contraddizioni contribuisce anche ciò che si vede (e non si vede) nel servizio Incom. La cosiddetta “propaganda grigia”, che sembra arrivare da fonti neutrali, utilizza in modo significativo la strategia dell’assenza – la “mezza verità” – per rendere efficace il proprio messaggio. In questo caso, le immagini mostrano donne, tante donne, quasi soltanto donne in un effetto invasione: camminano, affollano gli autobus, guidano, sorridono, lavorano, sono ovunque. Una iperpresenza a cui corrisponde l’assenza degli uomini, praticamente inesistenti o in secondo piano: il tentativo di tenerli fuori scena è evidente nelle riprese del laboratorio scientifico con sole donne (difficile da immaginare anche nel XXI secolo!). Passa così inosservata la (reale) assenza degli uomini nei luoghi tradizionali, come la casa e l’ambito di cura infantile.
Le immagini fanno qui da sottofondo alle parole. E dal testo emerge lo spirito del tempo. Sul piano del discorso il maschio si riprende la scena: a lui è affidata la narrazione, esplicita quando lo speaker dice «noi uomini» e «le nostre donne». Questo presenzialismo verbale ricorda la scena di un film del periodo, Il sorpasso di Dino Risi (1962), in cui Jean-Louis Trintignant, nei panni del giovane Roberto, davanti a una coppia di sposi, pensa caustico: «La donna che parla poco perché le parole servono tutte al marito».
Ci sono almeno tre aspetti da osservare sul piano del discorso. Primo, le parole sono usate in modo contrastivo («sesso forte» versus «sesso debole»), oppure attribuendo alle donne tratti considerati “maschili” ma sempre, prudentemente, in accumulo ad altri “femminili”: «hanno messo i pantaloni», hanno «maggiore disinvoltura e agilità», «tenacia e spirito combattivo», ma non hanno perduto la «tipica grazia dell’eterno femminino», «la leggerezza della ballerina», «la civetteria acquisita». Secondo, il servizio ruota intorno all’affermazione «ma la donna è anche madre» (al minuto 04.30: centrale anche nel minutaggio complessivo). L’avversativo, da una parte, ristabilisce l’ordine delle cose – «dai 15 ai 50 anni» il destino di ogni donna è la maternità –, dall’altra parte, nomina la «doppia presenza» femminile[5], ovvero la conciliazione famiglia-lavoro, connotandola come un dato di fatto. Si insiste su diffusione degli elettrodomestici, arrivo dell’acqua nei paesi del Molisano, supporto degli istituti per l’infanzia e dei centri sociali, per evidenziare che il lavoro delle donne si semplifica in direzione di «una maggiore serenità»; in realtà, il doppio lavoro è sinonimo per tutte di enorme, non riconosciuta, fatica («Sono sempre stanca e nessuno ci crede» faceva confessare Alba De Céspedes alla sua protagonista in Quaderno proibito). Terzo e ultimo, l’uso di “banalità scintillanti” ovvero espressioni con una carica emotiva su cui formarsi un’opinione, appunto, banalizzante[6]. Il finale va in questa direzione: «le donne ormai camminano con noi, nel passo spesso concitato del mondo moderno; si muovono decise verso un avvenire sempre migliore». Si conferma così una narrazione a-problematica, fondata sull’ottimistica convinzione, effettivamente diffusa allora, che democrazia e benessere avrebbero “sistemato” la questione femminile.
[1] M. Boneschi, Santa pazienza. La storia delle donne italiane dal dopoguerra a oggi, Milano, Mondadori, 1998, p. 322.
[2] E. Betti, Il lavoro femminile nell’industria italiana. Gli anni del boom economico, in «Storicamente», volume 6, 2010, <https://storicamente.org/lavoro_femminile_donne>, ultima consultazione: 15/01/2023.
[3] A. Pescarolo, I mestieri femminili. Continuità e spostamenti di confine nel corso dell’industrializzazione, in «Memoria. Rivista di Storia delle Donne», n. 30, 1990, pp. 55-68.
[4] M. Boneschi, Santa pazienza, op. cit., p. 344.
[5] Inizia a essere oggetto di studio dagli anni Settanta con il saggio di L. Balbo, La doppia presenza, in «Inchiesta»,anno VIII, n. 32, marzo-aprile 1978, pp. 3-6, disponibile qui: BIDD-INCHIESTA.pdf (atria.nl).
[6] E.L. Bernays (1928), Propaganda. L’arte di manipolare l’opinione pubblica, Milano, ShaKe, 2020; G. Orwell, Il potere e la parola. Scritti su propaganda, politica e censura, Prato, Piano B, 2021.