L’ARTE SALVATA DALLA GUERRA: APPUNTI SU UNA MOSTRA, UN LIBRO E UN FILM

di Andrea Scappa

Durante la seconda guerra mondiale l’arte italiana si ritrova ad essere messa in salvo dai bombardamenti, dalle razzie, dalle devastazioni, da prelievi forzati promossi come recuperi e da torbide compravendite. Sculture, tele, arazzi, manufatti antichi, oggetti e arredi di pregio già verso la fine del 1938, grazie alla previdenza di Giuseppe Bottai, Ministro dell’educazione nazionale, vengono censiti e, in base al maggiore o minore interesse artistico, protetti in doppie casse di zinco e legno intervallate da tela, ovatta e cuscinetti elastici, avvolti in coperte, foderati di carta. Tre differenti gradi di protezione per essere poi riposti nei sotterranei dei musei, nascosti dietro nuovi muri appositamente innalzati e in gran parte trasferiti altrove su camion, mezzi di fortuna, sulle stesse vetture dei funzionari delle Belle Arti. Quando la geografia e la natura del conflitto muta, le opere come migrazioni di stormi impazziti, sono spostate da un ricovero ad un altro più sicuro. In altri casi diventano facile preda, bruciano o si disperdono. Impalcature, capanni, sacchi di sabbia e alghe circondano i monumenti e le architetture per limitare i danni del conflitto. I rettangoli con cornice gialla e due triangoli all’interno, uno nero e uno bianco, verniciati allo scoppio della guerra sui tetti di ospedali, di palazzi importanti e di molti luoghi d’arte, segno distintivo contro gli attacchi aerei, con l’inasprirsi della guerra crollano per la distruzione incondizionata degli edifici.

Che ruolo ha avuto la fotografia nell’attività di tutela, recupero e restauro del patrimonio artistico italiano passato attraverso le grinfie belliche? Come si possono usare le fonti audiovisive per raccontare, promuovere e valorizzare tutta questa storia? Queste risultano essere alcune delle domande che hanno mosso e orientato tre diversi contributi sull’argomento. La mostra ARTE LIBERATA 1937-1947. Capolavori salvati dalla guerra, da poco inaugurata e aperta fino al 10 aprile 2023, a cura di Luigi Gallo e Raffaella Morselli, organizzata dalle Scuderie del Quirinale, in collaborazione con la Galleria Nazionale delle Marche, l’ICCD – Istituto Centrale per il catalogo e la Documentazione e Cinecittà S.p.A. – Archivio Storico Luce e corredata dall’omonimo e ricco catalogo pubblicato da Electa. Il volume Le arti della nazione. L’evoluzione degli strumenti per la tutela (1930-1950) di Paola Callegari, uscito a novembre per la collana “ARTE. Collezioni Luoghi Attori” della Bologna University Press, con la prefazione di Marco Pizzo e la postfazione di Desirée Tommaselli. Il documentario del 2018 Nel nome di Antea. L’Arte italiana al tempo della guerra, scritto e diretto dal regista Massimo Martella. Il libro di Callegari ha ricevuto un contributo per la pubblicazione dall’Archivio Storico Luce, che ha anche prodotto e distribuito il film di Martella.

La mostra alle Scuderie, attraverso l’esposizione di cento capolavori salvati nel corso della seconda guerra mondiale, propone la costellazione di uomini e donne dello Stato, storici e storiche dell’arte, soprintendenti, direttrici di gallerie, funzionari della pubblica amministrazione che per tutelare il nostro patrimonio artistico-culturale hanno messo in campo competenza, impegno civile, passione, rischiando la loro stessa vita. Giulio Carlo Argan, Palma Bucarelli, Emilio Lavagnino, Pasquale Rotondi, Fernanda Wittgens, Noemi Gabrielli, Bruno Molajoli, Jole Bovio e Rodolfo Siviero sono alcuni dei protagonisti di questa enorme impresa perseguita in prima linea. Un’attività di salvaguardia faticosa e costante, andata avanti per mesi ed anni, in un Italia messa a ferro e fuoco, che ha richiesto metodo, intuito, previsione e una capacità decisionale e strategica estremi con il susseguirsi e l’evolversi degli eventi. L’allestimento della mostra nelle pareti delle sale sceglie di richiamare il legno grezzo degli imballaggi, le liste, gli schemi, le pagine dei diari dei funzionari delle Belle Arti, e di lasciare dei vuoti soltanto con la didascalia per alcune delle opere tutt’ora disperse. A questo si aggiunge la funzione che svolge la fotografia rispetto all’opera d’arte. Infatti nella mostra, che riesce ad essere immersiva senza l’uso della realtà virtuale, le foto o i frame da filmati in bianco e nero, ingranditi, zoomati, ritagliati, riprodotti su uno o più supporti, posizionati dietro o davanti all’arte esposta, oltre a direzionare lo sguardo lo fanno entrare in connessione con la vicenda travagliata di quel dipinto o di quella scultura. La foto diventa una scheggia di passato in grado di generare in maniera istantanea un cortocircuito con il presente, prima ancora di leggere o ascoltare qualsiasi spiegazione storico-critica. Così abbiamo nella sala introduttiva del percorso espositivo il Discobolo Lancellotti, copia romana in marmo del II secolo d. C., prestato dal Museo Nazionale Romano. L’opera, vincolata e contro il parere di Giuseppe Bottai, è venduta ad Adolf Hitler con l’intercessione di Benito Mussolini e Galeazzo Ciano e accolta il 9 giugno del 1938 nella Glyptothek di Monaco di Baviera. Proprio qualche giorno dopo quella data, al museo, viene scattata la foto che ritrae Hitler soddisfatto accanto al Discobolo, per lui simbolo dell’ideale di perfezione ariana. La riproduzione della foto fa da sfondo all’opera esposta, visualizzando l’uso propagandistico che ne fu fatto tra il tondo con la svastica sul braccio del Führer e il disco della statua liberata e riportata nel nostro Paese nel 1948 da una delegazione guidata da Rodolfo Siviero.

Lo stesso Siviero che nel 1945 segue il ritorno della Danae di Tiziano, trafugata dall’Abbazia di Montecassino dalle truppe tedesche e donata per il suo compleanno, l’anno prima, al feldmaresciallo Herman Goering, il quale l’aveva appesa nella sua stanza da letto. Nella sala della mostra dedicata alle restituzioni, con una sorta di piano sequenza, c’è compenetrazione tra la foto stampata su tutta la parete e la Danae, proveniente dal Museo e Real Bosco di Capodimonte. Così Siviero in bianco e nero seduto su una poltrona sembra ammirare non più la tela con cui è catturato nella foto, ma quella reale presente davanti ai nostri occhi. Una continuità nel tempo permessa dal suo operato. Altre volte questo gioco di raddoppiamento provocato dalla foto vede le opere nel momento in cui sono smontate, già imballate, caricate su furgoni, che fuoriescono dalle casse, insomma preparate per un possibile riparo. Analogamente, altre volte le foto, riprodotte su tele che fungono da quinte, tramite cui il visitatore deve passare per arrivare ad un arazzo, ad una maiolica o ad un dipinto, ci fanno vedere i luoghi d’arte puntellati, fasciati di sacchi, rafforzati da colonne di mattoni. È il caso del Palazzo Ducale di Urbino con tutti i sistemi di protezione antiaerea. Si ha l’impressione di riattraversarlo prima di giungere alla Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, prestata dalla Galleria Nazionale delle Marche. Le opere esposte si lasciano alle spalle la paura della guerra e tornano a respirare.

Nel suo libro, Paola Callegari ricostruisce alcuni snodi emblematici relativi alla formulazione e all’attuazione delle misure per la salvaguardia del patrimonio storico-artistico in Italia nella prima metà del Novento, puntando l’attenzione su due figure istituzionali che diedero il loro fondamentale contributo, Corrado Ricci e Giuseppe Bottai, e su due tipologie di fonti documentarie a loro coeve, le riviste e la fotografia. In particolare alla fotografia, intesa come un nuovo strumento per la tutela, è dedicato un intero capitolo, nel cuore del quale troviamo l’analisi di tre campagne fotografiche, quelle svolte a Bologna, Firenze e Milano. Tre differenti modalità di narrazione delle attività di difesa del patrimonio artistico durante il secondo conflitto sul suolo italiano. Callegari si concentra su alcune foto: quelle che ripercorrono la messa in sicurezza delle parti esterne e interne delle principali chiese bolognesi, a partire dalla basilica di San Petronio, quelle scattate dal Comando Alleato che mostrano il ritorno e la restituzione delle opere a Firenze e quelle dei fotografi professionisti Antonio Paoletti e di Claudio Emmer, appartenenti al Comando Alleato, che raccontano i danni provocati in città dai bombardamenti agli edifici, come ad esempio alla chiesa di Santa Maria delle Grazie e al suo Refettorio, alla Pinacoteca di Brera e al Teatro alla Scala. Callegari sottolinea la differenza stilistica delle tre campagne, definendo il reportage di Bologna più narrativo e dinamico, quello di Firenze di stampo storico-celebrativo e quello di Milano con una connotazione etica e ideologica.

Nel film di Martella a condurre lo spettatore nelle vicende narrate sono le voci di due opere d’arte che hanno vissuto l’orrore della guerra con tutti i conseguenti spostamenti da un rifugio all’altro: il cinquecentesco Ritratto di giovane donna del Parmigianino, custodito al Museo e Real Bosco di Capodimonte e la cui protagonista è stata ribattezzata Antea e il Ritratto di Alessandro Manzoni, dipinto del 1841 di Francesco Hayez, conservato alla Pinacoteca di Brera. Le foto e i filmati, principalmente dell’Archivio Storico Luce, illuminano sul contesto bellico, sugli interventi di salvaguardia e spesso vengono impiegati a livello visivo per passare dal passato al presente. Infatti opere d’arte e persone in bianco e nero si ritrovano negli stessi palazzi di oggi, in cui la camera si insinua tra corridoi, stanze e scale. Anche qui come nella mostra alle Scuderie del Quirinale si pedinano le storie di Rotondi, rievocato anche con l’intervista alla figlia Giovanna, di Lavagnino, di Bucarelli e Wittgens.

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