IMPERO FILMATO, IMPERO ESIBITO. LA CINETECA DEL MUSEO COLONIALE DI ROMA (1923-1951)

di Beatrice Falcucci e Gianmarco Mancosu*

*Si pubblicano di seguito quattro parti consecutive del saggio Impero filmato, impero esibito. La cineteca del Museo Coloniale di Roma (1923-1951), uscito sul n. 299 della rivista «Italia contemporanea», agosto 2022. Nonostante la ricerca sia stata concepita e sviluppata in maniera totalmente collaborativa, le parti Vedere ed esporre l’impero: immagini coordinate tra musei e cinema e Il Museo Coloniale di Roma: “fuciloni e coltellacci, costumi di ras e cimeli del nostro sacrificio” risultano a cura di Beatrice Falcucci mentre le parti Le colonie in celluloide: la cineteca del Museo Coloniale e Il Museo e l’Istituto Luce: visioni coordinate per la conquista dell’impero di Gianmarco Mancosu. L’intero saggio è disponibile qui: https://bit.ly/3ZwqAlY

Vedere ed esporre l’impero: immagini coordinate tra musei e cinema

La possibilità di mostrare l’edificazione degli imperi nei centri metropolitani ha avuto un ruolo cruciale nel costruire la relazione tra i colonizzatori e le culture colonizzate sin dagli albori dell’imperialismo moderno[1]. Bernard Cohn e Nicholas Dirks sostengono che gli stati coloniali mobilitarono una vasta gamma di tecnologie visuali per legittimare il loro potere coloniale[2]. Le illustrazioni, la cartografia e poi la fotografia divennero strumenti decisivi per veicolare rappresentazioni sull’oltremare funzionali al suo dominio[3]. Quest’ansia catalogatrice e classificatrice, a partire dalla fine del diciottesimo secolo, si espresse nelle esposizioni nazionali e internazionali in tutta Europa[4], nei grandi musei nazionali che esse spesso originavano[5], ed attraverso la “museologia ordinatrice” di tipo scientifico e universitario[6]. Queste esperienze, legate tanto al nation building quanto all’empire building delle grandi potenze europee[7], permisero di visualizzare una presunta superiorità culturale, scientifica e tecnologica occidentale, che veniva ostentata e contrapposta alla supposta arretratezza e povertà materiale dei popoli “altri”, delineando in modo apparentemente “oggettivo” l’identità tanto dei primi quanto dei secondi[8].

Il cinema s’inserì all’interno di questo discorso scientifico potenziandone il portato e la diffusione, soprattutto per quanto concerne le tematiche coloniali. La fase culminante dell’imperialismo moderno, tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento, coincise con l’invenzione, la diffusione e l’utilizzo del cinematografo in Europa e nel mondo colonizzato[9]. Grazie a questo medium, le colonie potevano essere esibite e al contempo “studiate” attraverso la presunta oggettività offerta dalle riprese. Specialmente i film “dal vero” (documentari di viaggio, etnografici, scientifici, e poi i cinegiornali) divennero strumenti privilegiati attraverso cui mostrare, o meglio costruire, la realtà degli imperi in modo funzionale al loro controllo[10]. Rappresentando le colonie da una prospettiva apparentemente scientifica e realistica, queste pellicole fornirono non semplicemente un intrattenimento esotico: esse contribuirono a classificare e ordinare quelle differenze che sono «inscribed into the very foundation of the […] colonial encounter», costruendo un archivio di conoscenze in sintonia con l’agenda dei colonizzatori[11].

L’uso e l’archiviazione di filmati etnografici, coloniali e di propaganda presso la cineteca del Museo Coloniale dai primi anni Venti può essere considerato come diretto erede di pratiche visuali pedagogico-scientifiche “positivistiche” (l’utilizzo di lastre di diapositive in rame, di lanterne magiche e di fotografie per lezioni/simposi d’antropologia, medicina, geografia, zoologia) che dal diciannovesimo secolo si diffusero nelle accademie e nei musei di tutta Europa[12]. Alla luce di ciò, questo studio si propone di cogliere le interconnessioni tra attività diverse che, sebbene già studiate individualmente in ambito museologico, espositivo e cinematografico, sono qui considerate all’interno di un quadro interpretativo unitario[13]. In altri termini, seguendo l’impianto metodologico proposto da Adolfo Mignemi nel suo Immagine coordinata per l’impero, quest’articolo indaga un caso di studio specifico concernente le interconnessioni tra cinema, esposizione museale, e propaganda coloniale tra Italia fascista e repubblicana[14].

Il Museo Coloniale di Roma: «fuciloni e coltellacci, costumi di ras e cimeli del nostro sacrificio»

Il Museo Coloniale di Roma ebbe origine dalle collezioni esposte alla “Esposizione internazionale di Marina, di Igiene marinara e Mostra coloniale italiana” di Genova del 1913[15]. Conclusasi la mostra, il Ministero delle Colonie decise di riunire le collezioni coloniali per dar vita, su ispirazione delle esperienze espositive inglesi, belghe, francesi e olandesi, ad un museo alle sue dirette dipendenze che celebrasse le colonie italiane, di cui faceva da poco parte la Libia acquisita a seguito della guerra italo-turca (1911-1912)[16].

Il Museo vide la luce solo nel 1923, a conflitto mondiale terminato e con il Fascismo ormai al potere: trovò spazio al Palazzo della Consulta, sede del Ministero delle Colonie, sotto la direzione del funzionario ministeriale Umberto Giglio (1880-1944)[17]. L’inaugurazione si svolse l’11 novembre 1923 alla presenza, tra gli altri, di Mussolini, del Re e del ministro dell’Istruzione Giovanni Gentile, a riprova dell’importanza accordata all’evento[18]. All’epoca il fascismo stava iniziando a progettare un rilancio della politica espansionistica: era necessario stabilizzare alcuni sultanati somali ma soprattutto la Libia, sempre più insicura dopo il conflitto mondiale e la successiva sospensione della politica degli Statuti[19]. Il Museo fu quindi concepito come cassa di risonanza per una fase di politica coloniale più spregiudicata. L’interesse per le vicende coloniali nella società italiana era stato fino ad allora altalenante, e prevalentemente legato al clamore suscitato dalla sconfitta di Adua e alla massiccia mobilitazione nazionale avvenuta in occasione della guerra italo-turca[20]; il ministro delle Colonie Federzoni era consapevole di ciò, e durante l’inaugurazione del Museo del 1923 osservò che «è innegabile che da noi, le colonie non sono amate; esse vivono fuori dall’orizzonte spirituale della più grande parte degli italiani»[21]. Al fine di coinvolgere maggiormente i cittadini rispetto alle possibilità e alle prospettive che le colonie potevano offrire, l’attività fieristica e merceologica venne presentata come punto focale dell’intera operazione culturale: nacque così, all’interno del Museo, la Mostra Campionaria permanente, per diffondere la presenza delle colonie italiane nelle esposizioni nazionali e all’estero[22].

Giglio divise il materiale del Museo in venti sale, organizzate in sezioni e sviluppate al loro interno, ove possibile, con un criterio geografico[23]: nelle prime due calchi, riproduzioni, copie di statue, fotografie e stampe, quadri, album, carte geografiche utili a presentare storia e morfologia delle colonie; nella terza manufatti, campioni di prodotti naturali (legnami, spugne, avorio, minerali e cuoi), industriali e alimentari (non tanto locali, quanto «i prodotti dell’operosità di alcuni industriali che a Tripoli hanno impiantato con fortuna una distilleria e fabbriche di dolciumi in Eritrea»[24]); nella quarta sezione si trovavano collezioni etnografiche, dalle armi e abbigliamento delle popolazioni locali, sino ai cimeli di esploratori famosi[25] («fuciloni e coltellacci, costumi di ras e cimeli del nostro sacrificio»[26]) [fig. 1]; infine l’ultima ospitava libri a sussidio delle altre sezioni. Alcuni tra i più noti pittori italiani contemporanei vennero invitati ad abbellire il Museo, viaggiando nelle colonie e dipingendo quadri a tema africano[27].

Fig. 1 – Archivio Storico Luce, Oggetti conservati al Museo Coloniale.

Ad oggi, non è stato possibile reperire un inventario del Museo nella sua prima sede al Palazzo della Consulta; inoltre il primo catalogo, che vedrà la luce solo nel 1938, risulta disperso, insieme a buona parte della documentazione precedente al 1940 (apparentemente anch’essa perduta, non essendo reperibile tra i documenti oggi depositati presso il Ministero degli Affari Esteri)[28].

In mancanza di documentazione relativa agli oggetti ben poco, purtroppo, si può dire su come fossero condotte le acquisizioni e di come venissero selezionate le donazioni da accettare, sempre che vi fosse una vera e propria linea curatoriale in questo senso. Inoltre, il successore di Giglio alla direzione del Museo, Massimo Adolfo Vitale (1885-1968), colonnello e funzionario di origine ebraica impegnato in Africa fin dalla conquista della Libia e prefetto di Derna – posizione da cui venne allontanato in seguito alla promulgazione delle leggi razziali – si dichiarò fortemente critico circa

le pratiche riguardanti il mio predecessore, il di Lui particolarissimo metodo di amministrazione in genere […] la maggior parte delle carte risulta sempre monca quando non addirittura mancante, usando Egli sovente ricorrere a comunicazioni telefoniche e biglietti privati, anziché a lettere ufficiali. Mi risulta poi che poco prima di Sua morte Egli ha proceduto, per giorni, a distruggere cumoli di tali note[29].

Il Museo ospitava una fototeca e una cineteca sin dalla sua fondazione[30], sezioni normalmente chiuse al pubblico che venivano aperte solo in occasioni specifiche[31]. Sebbene non si abbiano notizie sulla presenza di una sala dedicata esclusivamente alle proiezioni, è certo che al Museo si tenessero conferenze con proiezioni di film e documentari[32]: Federzoni, ad esempio, annotò nel suo diario che il 13 febbraio 1927 ci fu una proiezione «incauta» di un documentario sullo Yemen voluto dal governatore dell’Eritrea Jacopo Gasparini (1879-1941), che avvenne proprio mentre erano in corso le trattative per l’acquisizione di alcuni presidi costieri nella penisola arabica, progetto poi sfumato[33].

Nel 1932 il Museo traslocò negli spazi più ampi di Via Aldrovandi, accanto al Giardino Zoologico. Una prima inaugurazione avvenne l’11 novembre 1932, secondo quanto riportato su «L’Azione Coloniale»[34]. Una seconda inaugurazione, probabilmente ben più spettacolare, avvenne il 21 ottobre 1935, dopo che il 3 ottobre, senza formale dichiarazione di guerra, l’Italia fascista invase l’Etiopia[35]. Dopo la lunga e violenta guerra che si combatté tra l’autunno 1935 e l’inverno del 1936, nel maggio dello stesso anno Mussolini poté dichiarare «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma».

Le colonie in celluloide: la cineteca del Museo Coloniale

Con la “pacificazione” libica e la dichiarazione dell’impero la propaganda coloniale si insinuò in maniera più capillare all’interno della società italiana; di conseguenza, la funzione del Museo Coloniale divenne ancora più significativa[36]. In via Aldrovandi, il nuovo e più ampio Museo contava 36 sale[37]. La sua fototeca doveva «fornire documenti fotografici relativi alle nostre Colonie a scrittori, giornalisti italiani e stranieri, opera questa di propaganda coloniale di apprezzatissimo valore»[38]. La cineteca, ospitata nella sala XXXVI, aveva un ruolo simile, in quanto fu usata come un archivio cinematografico di riferimento per i filmati etnografici e/o propagandistici sulle colonie prodotti sin dalla guerra italo-turca. Ciò risulta evidente osservando gli inventari delle pellicole conservate al Museo stilati nel 1946, che costituirono l’archivio filmico da cui si attingeva per le proiezioni tenutesi al Museo nel ventennio precedente[39]. Sebbene non ci siano pervenuti gli inventari stilati tra il 1923 e il 1946, i film in elenco sono quelli prodotti e proiettati durante il Fascismo. Questo lo si deduce da diversi elementi: dai titoli, dalle case di produzione e, infine, da un appunto scritto dal direttore Vitale nel maggio 1946 il quale, inventariando i film ancora in carico alla cineteca, esplicitò che «non vengono segnati quei film che per il loro titolo, riferendosi ad alcuni avvenimenti fascisti (viaggio ministri Lessona-Teruzzi-cerimonie fasciste etc.) sono senz’altro da escludersi»[40].

Gli inventari dei film redatti da Vitale sono due: nel primo, stilato nel maggio 1946 e contenente 57 film, non figurano alcuni film prodotti dall’Istituto Luce presenti invece tra i 73 titoli di un altro elenco, datato 3 luglio 1946, completo di tutti i film (174 bobine), compresi quelli considerati da Vitale eccessivamente “compromessi” col fascismo. Nell’inventario del maggio 1946 mancano, ad esempio, pellicole quali le famose Cronache dell’Impero del Luce[41] e non sono presenti i film su personalità fasciste (come Viaggio di S. E. Lessona in Somalia, Viaggio di S. E. Lessona in A.O.I., Sua Eccellenza Teruzzi in Africa Orientale Italiana); è poi interessante notare che i lungometraggi, come Camicia Nera di Gioacchino Forzano, fossero esclusi. D’altra parte, l’inventario “bonificato” da questi titoli presenta comunque film che, sebbene nel titolo non richiamino direttamente personalità o eventi legati alla guerra d’Etiopia, furono in realtà esempi primari della propaganda coloniale fascista. È il caso de Il cammino degli eroi, documentario di Corrado D’Errico del 1936 che, usando il materiale girato dal “Reparto foto-cinematografico Africa Orientale” dell’Istituto Luce durante le battaglie del gennaio-aprile 1936, condensava i miti fascisti sull’edificazione dell’impero[42].

Come si vedrà in seguito, numerose altre pellicole (non necessariamente a tematica coloniale) trovarono temporaneamente posto nella cineteca, o furono noleggiate per periodi più o meno brevi. Gli inventari citati poc’anzi presentano invece quasi esclusivamente film sulle colonie: l’analisi dell’elenco completo di queste ultime pellicole stilato nel luglio del 1946 [fig. 2, 3, 4]è rivelatore d’interessanti informazioni[43].

Fig. 2 – ASDMAE, Ufficio Studi Ministero Africa Italiana, pac. 19, fasc. 113; Elenco delle films in carico al Museo Coloniale, 3 luglio 1946 (f. 1).
Fig. 3 – ASDMAE, Ufficio Studi Ministero Africa Italiana, pac. 19, fasc. 113; Elenco delle films in carico al Museo Coloniale, 3 luglio 1946 (f. 2).
Fig. 4 – ASDMAE, Ufficio Studi Ministero Africa Italiana, pac. 19, fasc. 113; Elenco delle films in carico al Museo Coloniale, 3 luglio 1946 (f. 3).

Innanzitutto, seppur non esplicitamente indicato, è evidente che la lista fu redatta cercando di seguire un ordine cronologico rispetto alla data d’uscita dei film. Sebbene nel secondo e terzo foglio [fig. 2 e 3] siano frequenti le pellicole relativamente brevi – circa 300 metri in media – che potrebbero far pensare a filmati prodotti prima che le evoluzioni tecniche permettessero metraggi e durate più lunghe, esse sono prevalentemente riconducibili ai Giornali Luce sull’Africa Orientale Italiana, prodotti tra il 1935 e il 1941. L’ordine diacronico è confermato anche dal fatto che, da circa metà elenco, a fianco dei titoli viene riportata tra parentesi la dicitura «sonoro», facendo riferimento alla tecnologia che dai primissimi anni Trenta si diffuse anche in Italia.

L’intervento fascista risulta evidente scorrendo la colonna sulle varie case di produzione, in cui si nota nettamente la transizione verso un sistema centralizzato gestito dal Luce. I primi filmati in elenco sono infatti produzioni di case private (La Barbera, Apolloni, Cito films), di istituti religiosi (pellicole prodotte dai frati Cappuccini presenti nel Corno d’Africa)[44], e di enti pubblici (il Ministero della Marina). Di particolare rilevanza furono i filmati della Ambrosio Film: la casa torinese, fondata nel 1906 da Arturo Ambrosio e Alfredo Gandolfi, fu tra le principali case cinematografiche italiane, nonché la più all’avanguardia per quanto concerne la funzione educativa, scientifica e documentaria del cinematografo[45]. Titoli quali Cirenaica illustrata o Il nostro esercito coloniale, ma anche Cirene o Dalle spiaggie sirtiche al Gebel indicano inoltre film sulla guerra italo-turca (1911-1912). Queste ultime due pellicole sono della Comerio Film, indicate nel documento come “Da Luca” in riferimento al nome del pioniere del reportage militare e di guerra italiano[46].

Il Museo e l’Istituto Luce: visioni coordinate per la conquista dell’impero

Se, nella sua prima parte, il catalogo delle pellicole mette insieme film tra essi molto differenti e prodotti da svariate case di produzione, da circa metà [fig. 2] si osserva un sostanziale cambio di paradigma: la totalità dei film è infatti prodotta dall’Istituito Luce, l’istituto propagandistico voluto da Mussolini e posto alle dirette dipendenze dell’Ufficio Stampa e Propaganda della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dal 1924, il Luce iniziò a produrre filmati di varia natura (corti, medi, e lungometraggi; documentari; film educativi e, dal 1927, la famosissima serie di cinegiornali Giornale Luce)[47]. Questi filmati erano parte delle numerose strategie politico-culturali approntate dal regime per invadere la vita e plasmare gli immaginari collettivi degli italiani, che in questo caso venivano esposti a contenuti di propaganda mentre assistevano ad uno spettacolo cinematografico nelle sale o durante gli spettacoli itineranti portati nei centri più remoti grazie ai cinemobili[48].

Il massimo sforzo propagandistico del Luce si ebbe in occasione della conquista fascista dell’Etiopia[49]: tuttavia, lo stretto legame tra temi coloniali e propaganda cinematografica risale addirittura ai primi passi dell’Istituto, che esordì al Teatro Augusteo nel novembre 1924 proprio con un documentario sulla missione esplorativa nel Corno d’Africa del giornalista Guelfo Civinini, intitolato Aethiopia.[50] Nell’economia del presente lavoro è interessante osservare come l’inaugurazione del Museo Coloniale nel novembre 1923, l’esordio del Luce con Aethiopia, e una più decisa svolta di politica coloniale furono fenomeni tra essi peculiarmente intrecciati[51]. Dalla seconda metà degli anni Venti, infatti, s’intensificarono le operazioni in Somalia e in particolare le violente azioni militari in Libia: seppur abilmente censurate dalla propaganda, esse permisero al fascismo di mostrare agli italiani e al mondo la trasformazione dell’Italia da nazione “mutilata” a degna erede dell’Impero Romano nel Mare Nostrum[52].

La più decisa politica coloniale coincise quindi con la stretta totalitaria, che si trasfuse nell’irreggimentazione della cinematografia educativa all’interno delle maglie dello Stato fascista, e nelle attività di enti e istituti come il Museo Coloniale, chiamati a propagandare l’agenda coloniale del regime con rinnovato vigore. Nella documentazione concernente i film della cineteca del Museo Coloniale, questo cambio di paradigma si nota dalla crescente presenza di film Luce sui possedimenti coloniali e le loro potenzialità economiche (Le nostre colonie; Leptis Magna; Miniera Eritrea; Inaugurazione della fiera di Tripoli) e sulle visite dei personaggi di Stato nelle terre d’oltremare (Il viaggio di S.E. Lessona nella Somalia italiana; Il viaggio di S.M. il re in Eritrea; Il trionfale viaggio di S.E. Mussolini in Tripolitania); altre pellicole esaltavano le conquiste coloniali (Armi d’Italia in terra somala e in generale tutti i Giornali Luce elencati nella terza pagina dell’elenco) nonché la rivoluzione fascista (Il decennale; Camicia nera). Questi ultimi due titoli corroborano l’idea che diversi formati filmici (documentari etnografici; film scientifici; corto e lungometraggi; film fictional e cinegiornali) furono usati nei programmi di proiezione: insieme all’intento prettamente scientifico e documentario, dai tardi anni Venti e soprattutto dagli anni Trenta trovarono posto titoli più esplicitamente propagandistici e capaci di sollecitare l’immaginazione e i desideri degli spettatori in merito all’edificazione dell’impero fascista.

L’analisi di documenti e vicende riconducibili all’interazione tra Museo e Istituto Luce in vista dell’imminente guerra d’Etiopia permette di corroborare un’ipotesi di lavoro suggestiva, ovvero che la cineteca del Museo sia divenuta di fatto la “cinemateca” coloniale, nata proprio dalla sinergia tra le citate istituzioni. Le cinemateche, le cui competenze derivavano dal Regio Decreto n. 1985 (5 novembre 1925) che istituì l’Istituto Luce, erano chiamate a organizzare la produzione e il reperimento di materiale filmico a carattere scientifico ed educativo su svariate materie. In questo modo, i filmati potevano essere catalogati, archiviati, dati in prestito ed eventualmente riprodotti con facilità. Sebbene l’attività di ogni singola cinemateca fosse indirizzata da comitati tecnico-scientifici composti da diverse figure istituzionali e/o tecniche, la maggior parte di esse fu ospitata presso il Luce, che fornì il personale che si occupava delle questioni tecniche legate alla conservazione delle pellicole[53].

Nonostante il peso crescente che la politica espansionistica e il discorso imperiale assunsero nell’Italia fascista, sono quasi del tutto assenti i riferimenti ad una cinemateca specificamente coloniale che fosse ubicata presso i depositi dell’Istituto Luce (in via Cernaia prima, e al Quadraro poi); d’altra parte, la cineteca del Museo conservava alcune tra le più significative pellicole prodotte in occasione della “pacificazione” della Libia e della conquista dell’impero[54]. In questo senso, Istituto e Ministero delle Colonie tra l’agosto 1934 e il maggio 1935 iniziarono a ipotizzare la creazione di «una cinemateca coloniale onde intensificare, in vista dell’attualità dell’argomento, la propaganda coloniale»[55].

Questa collaborazione venne decretata nel settembre 1935: l’invasione dell’Etiopia era ormai imminente e Benito Mussolini decise di creare in seno all’Istituto Luce il “Reparto foto-cinematografico Africa Orientale” (RAO), chiamato a centralizzare la produzione di film e fotografie sui successi dell’avanzata militare. Il RAO, dotato di personale e risorse fornite principalmente dall’Istituto stesso e da altre istituzioni coinvolte nella propaganda coloniale – ministeri quali Marina, Aeronautica, Colonie, Stampa e Propaganda, e alcuni rappresentanti della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN) – era guidato dal presidente dell’Istituto, Giacomo Paulucci di Calboli (1887-1961). Egli ne dirigeva l’attività da Roma insieme ad un Comitato Tecnico interministeriale formato dai membri delle citate istituzioni[56]; all’Asmara venne invece installata la sua sezione operativa, composta da circa 15 persone tra operatori e tecnici[57]. La selezione del negativo girato in Africa veniva effettuata a Roma dai membri del Comitato Tecnico interministeriale, tra i quali figurava il direttore del Museo Coloniale Umberto Giglio, rappresentante del Ministero delle Colonie. Il rapporto stretto tra Luce e cineteca del Museo è confermato nella lettera in cui Lessona confermò a Mussolini la nomina di Giglio come componente del Comitato Tecnico, in cui scrisse che

ho autorizzato detto funzionario [Giglio] a mettere a completa disposizione del Reparto stesso tutto il materiale di pellicole e di fotografie che è servito finora per corrispondere alle richieste di documenti da parte della stampa e di vari enti [58].

Ciò dimostra come Istituto e Museo collaborassero strettamente al fine di diffondere filmati e immagini di propaganda coloniale, e che il Museo conservasse una selezione dei titoli più significativi di quella produzione.

I cinegiornali e i documentari sulla guerra d’Etiopia e sull’Africa Orientale italiana entrarono nell’archivio cinematografico del Museo: almeno 30 titoli su 73 sono riconducibili alla produzione del RAO, in particolare del periodo 1935-1936. La descrizione dell’impero offerta da queste pellicole invase anche la società italiana; tra l’ottobre 1935 e l’estate 1937 i servizi di almeno 3 cinegiornali a settimana furono dedicati alla guerra d’Etiopia e all’Africa Orientala italiana. È ragionevole ipotizzare che questi film a tema imperiale del Luce fossero chiamati ad avere un ruolo cardine all’interno del riallestimento del Museo. Questa nuova fase, sancita anche dal cambio di denominazione in “Museo dell’Africa italiana”, venne inaugurata il 17 luglio 1937, come testimoniato nel Giornale Luce B1132 [fig. 5] [59].

Fig. 5 – Archivio Storico Luce; L’inaugurazione del Museo dell’Africa italiana, 17 luglio 1937.
Archivio Storico Luce; L’inaugurazione del Museo dell’Africa italiana, 17 luglio 1937.

I motivi del nuovo allestimento del Museo non sono noti, ma sono probabilmente legati all’arrivo di numerosi oggetti, cimeli e armi dall’Etiopia (come i cannoni italiani persi nel 1896 e recuperati sul campo di battaglia di Adua) che richiesero una nuova sistemazione[60]. Il materiale affluì in consistenza notevole, in parte grazie a donazioni di militari e privati ma soprattutto perché, a partire del 1936, alla sezione storico-militare del Museo venne attribuito il compito di smistare i cimeli di guerra della campagna d’Etiopia[61]. Una circostanza confermata dalla documentazione di alcuni musei periferici, come ad esempio il Museo della Guerra di Rovereto, che si vide rifiutare la richiesta d’invio di cimeli dalla guerra d’Africa: tutto doveva necessariamente passare per il Museo di Roma[62]. Anche i materiali filmici riguardanti l’impero sarebbero dovuti affluire nella nuova sede: nel dicembre 1937 – durante le trattive preparatorie alla stipula di una convenzione fra l’Istituto Luce, il ministero dell’Africa italiana (MAI), e quello della Cultura Popolare – venne specificato che tutte le pellicole e fotografie prodotte dagli operatori del RAO «dovranno essere regolarmente trasmesse alla fototeca del Ministero […]. Tali documenti verranno poi distribuiti alle legazioni che ne faranno richiesta per scopi culturali e di propaganda e agli enti pubblici»[63]. La fototeca a cui si fa riferimento coincideva fisicamente con la cineteca del Museo dell’Africa italiana, che quindi si sarebbe distinta come uno dei centri nevralgici della propaganda per l’impero.


[1] bell hooks, Black Looks. Race and Representation, Boston, South End Press, 1992, pp. 2-3; Nicholas Mirzoeff, How to See the World, London, Penguin, 2015.

[2] Bernard S. Cohn e Nicholas B. Dirks, Beyond the Fringe: The Nation State, Colonialism, and the Technologies of Power, “Journal of Historical Sociology”, 1988, n. 1 (2), p. 225.

[3] Tamara Shepard, Mapped, Measured, and Mined: The Social Graph and Colonial Visuality, “Social Media + Society”, 2015, n. 1 (1), 1-2; Timothy Mitchell, Orientalism and The Exhibitionary Order, in Nicholas Mirzoeff (a cura di), The Visual Culture Reader, Londra, Routledge, 1998, p. 293.

[4] Sharon Macdonald, “Exhibitions of power and powers of exhibition: an introduction to the politics of display”, in Sharon Macdonald (a cura di), The politics of Display, Museums, Science, Culture, Londra, Routledge, 1998, pp. 1-24; Guido Abbattista, Umanità in mostra: esposizioni etniche e invenzioni esotiche in Italia (1880-1940), Trieste, EUT, 2013; Peter H. Hoffenberg, An Empire on Display. English, Indian, and Australian Exhibitions from the Crystal Palace to the Great War, Berkely, University of California Press, 2001; Pascal Blanchard, Gilles Boëtsch, Nanette Jacomijn Snoep (a cura di), Exhibitions. L’invention du sauvage, Paris, Acte sud, 2012.

[5] Sarah Longair e John McAleer (a cura di), Curating empire. Museums and the British imperial experience, Manchester, Manchester University Press, 2012; Alice Conklin, In the Museum of Man: Race, Anthropology, and Empire in France, 1850-1950, New York, Cornell University Press, 2013; Penny H. Glenn, Objects of culture: ethnology and ethnographic museums in Imperial Germany, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 2002.

[6] Lorraine Daston e Katharine Park (a cura di), Wonders and the Order of Nature 1150-1750, New York, Zone Books, 1998; Bertrand Daugeron, Collections naturalistes entre science et empires (1763-1804), Paris, Publications Scientifiques du Muséum National d’Histoire Naturelle, 2009.

[7] Ilaria Porciani, La nazione in mostra. Musei storici europei, “Passato e Presente”, 2010, n. 79, pp. 109-132.

[8] Tony Bennett, Speaking to the eyes. Museums, legibility and the social order, in Sharon Macdonald (a cura di), The Politics of Display: Museums, Science, Culture, London, Routledge, 1998, pp. 25-35;Nicolas Bancel, Thomas David e Dominic Thomas (a cura di), The Invention of Race Scientific and Popular Representations, New York, Routledge, 2014.

[9] Frederick Cooper, Colonialism in Question. Theory, Knowledge, History, Berkeley, University of California Press, 2005, pp. 33-56.

[10] Ian Aitken e Camille Deprez, Introduction, in Ian Aitken and Camille Deprez (a cura di), The Colonial Documentary Film in South and South- East Asia, Edinburgo, Edinburgh University Press, 2017, pp. 1-26; Frank Ukadike, Africa, in Brian Winston (a cura di), The Documentary Film Book, Londra, Palgrave Macmillan, 2013, pp. 217-227; Fatimah Tobing Rony, The Third Eye: Race, Cinema, and Ethnographic Spectacle, Durham, Duke University Press, 1996.

[11] Peter J. Bloom, French Colonial Documentary. Mythologies of Humanitarianism, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2008, pp. 1-2.

[12] Sugli albori della cinematografia etnografica e scientifica, cfr. Asen Balicki, Anthropologists and Ethnographic Filmmaking, in Jack R. Rollwagen (a cura di), Anthropological Filmmaking, New York, Harwood Academic Publishers, 1988, pp. 31-46; Anna Grimshaw e Amanda Ravetz, Visualizing Anthropology, Bristol, Intellect, 2005; Peter Ian Crawofrd e David Turton (a cura di), Film as Ethnography, Manchester, Manchester University Press, 1992. Su pratiche visuali pre-filmiche dal carattere scientifico-pedagogico, cfr. Sarah Dellmann e Frank Kessler (a cura di), A Million Pictures: Magic Lantern Slide Heritage as Artefacts in the Common European History of Learning, Londra, John Libbey, 2020; Stuart Talbot, The Perfect Projectionist. Philip Carpenter, 24 Regent Street, London, “Bulletin of the Scientific Instrument Society”, 2006, n. 88, 2006, pp. 17-20; Charles Musser, Problems in Historiography. The Documentary Tradition Before ‘Nanook of the North’, in Brian Winston (a cura di), The Documentary Film Book, cit., 119-128; Marc Depaepe, Order in Progress: Everyday Educational Practice in Primary Schools, Belgium, 1880 – 1970, Leuven, Leuven university press, 2000.

[13] Nicola Labanca (a cura di), L’Africa in vetrina, Treviso, Pagus Edizioni, 1992; Giuliana Tomasella, Esporre l’Italia coloniale. Interpretazioni dell’alterità, Padova, Il Poligrafo, 2017; Massimo Zaccaria, Eritrea in mostra: Ferdinando Martini e le esposizioni coloniali 1903-1906, “Africa”, 2002, n. 2, pp. 512-545; Maddalena Carli, L’Italia all’Exposition coloniale internationale et des pays d’outre-mer, Paris 1931, “Ricerche storiche”, 2015, n. 1-2, pp. 219-227.

[14] Adolfo Mignemi, Immagine coordinata per un impero. Etiopia 1935-1936, Torino, Forma, 1984. Da un punto di vista teorico, la nostra analisi trae ispirazione dal lavoro di Nicholas Mirzoeff, secondo cui la capacità di visualizzare gli imperi (attraverso diversi medium)è costitutiva della modernità europea, e diviene funzionale alla strutturazione di un ordine specifico sul mondo coloniale, cfr. Nicholas Mirzoeff, On Visuality, “Journal of Visual Culture”, 2006, n. 5 (1), pp. 53-79; Sumathi Ramaswamy, The Work of Vision in the Age of European Empire, in Martin Jay e Sumathi Ramaswamy (a cura di), Empires of Vision. A Reader, Durham, Duke University Press, 2014, pp. 1-22.

[15] Carlo Rossetti, Origini del Museo dell’Africa italiana, “Africa Italiana”, 1941, n. 19 (6), pp. 13-16.

[16] Dattiloscritto “Promemoria del prof. Conti Rossini”, 1943 (la data è aggiunta a lapis), in Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri (ASDMAE), fondo ex Ufficio Studi del Ministero dell’Africa italiana (USMAI), pac. 21, fasc. Museo Coloniale, miscellanea.

[17] Per un’analisi approfondita di queste vicende, cfr. Beatrice Falcucci, Il Museo Coloniale di Roma tra propaganda imperiale, oblio e riallestimento, “Passato e Presente”, 2021, n. 112, pp. 83-99; Beatrice Falcucci, Dall’Erbario coloniale al Museo Africano (1904-1972), “Nuova Museologia”, 2020, n. 43 (4), pp.18-28.

[18] Umberto Giglio, Un centro di vita. Il museo coloniale, “Rassegna italiana del Mediterraneo”, 1924, n. 40, p. 3.

[19] Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 138-139.

[20] Giuseppe Finaldi, A History of Italian Colonialism 1860-1907, London-New York, Routledge, 2017; Luigi Goglia e Fabio Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’impero, Roma-Bari, Laterza 1993; Angelo Del Boca (a cura di), Adua le ragioni di una sconfitta, Roma-Bari, Laterza, 1997.

[21] Luigi Federzoni, Venti mesi di azione coloniale, Milano, Mondadori, 1926, p 163.

[22] Già prima dell’inaugurazione ufficiale, il Museo partecipò nel 1922 alle mostre di Milano, Padova, Trieste e Napoli, e nei primi anni della sua apertura tra il 1923 e il 1924 a Milano e Napoli; nel 1925 a Losanna, Fiume, Monza e Napoli, poi nel 1926 Caltanisetta, cfr. Umberto Giglio, Il Museo coloniale italiano, “Realtà”, 1° maggio 1933, pp. 544-545.

[23] Umberto Giglio, Un centro di vita. Il museo coloniale, “Rassegna italiana del Mediterraneo”, 1924, n. 40, p. 3.

[24] Vincenzo Secchi, Il Museo Coloniale, “La Lettura”, aprile 1924. Grande risalto venne dato al ricino, impiegato come lubrificante naturale e dunque pianta dal grande valore autarchico.

[25] Francesco Surdich, L’esplorazione italiana dell’Africa, Milano, Il Saggiatore,1982.

[26] Guido Guida, Il Museo dell’Impero d’Italia, Cappelli, Bologna, 1941, p. 6.

[27] Parteciparono all’iniziativa Wolf Ferrari, Romano Dazzi, Giorgio Oprandi, Lidio Ajmone, cfr. Guido Guida, Il Museo dell’Impero d’Italia, cit.

[28] Gran parte della documentazione relativa al Ministero dell’Africa italiana (MAI) sparì durante la Seconda guerra mondiale: un vagone che trasportava documenti giunse per errore in Germania, e lì scomparve; altri documenti finirono in fondo alle acque del lago Maggiore a seguito di un incidente. Soltanto una parte della documentazione spedita agli uffici della Repubblica Sociale rientrò dunque a Roma: lì fu integrata con i documenti che erano rimasti in città e restituiti al Palazzo della Consulta, sede del MAI, cfr. Lettera di Umberto Giglio al capo dell’Ufficio Studi del MAI, 25 novembre 1944, in ASDMAE, USMAI, pac. 21, fasc. 130; cfr. anche Mariastella Maragozzi (a cura di), Dipinti, sculture e grafica delle collezioni del Museo Africano. Catalogo generale, Roma, Isiao, 2005, p. 18.

[29] Lettera di Massimo Adolfo Vitale all’Ufficio Studi del MAI, 22 novembre 1946, in ASDMAE, USMAI, pac. 19 Museo Coloniale 1945-55, fasc. 113 Museo coloniale-cineteca. Cartella generale 1948-55, s.fasc. 2 Films cinematografici. Viaggio in A.O.I. (terza spedizione s.e. Caroselli). 

[30] Silvana Palma, L’Africa nella collezione fotografica dell’IsIAO, Il fondo Eritrea-Etiopia, Roma Napoli, IsIAO – Università di Napoli “L’Orientale”, 2005; Silvana Palma, La fototeca dell’Istituto Italo Africano: appunti di un lavoro di riordino, “Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente”, 1989, 44 (4): pp. 595-609. Per quanto riguarda le collezioni cartografiche si veda Claudio Cerreti, La raccolta cartografica dell’Istituto Italo-Africano. Presentazione del fondo e guida alla consultazione, Roma, Istituto Italo-Africano, 1987.

[31] Umberto Giglio, Un centro di vita. Il museo coloniale, “Rassegna italiana del Mediterraneo”, 1924, n. 40, p. 3. Dalla fototeca attingevano case editrici (tra cui Treves) e testate giornalistiche, oltre che lo stesso Ministero dell’Africa italiana, per avere illustrazioni per le loro pubblicazioni e volumi. Un caso interessante in questo senso è stato analizzato da Silvana Palma, Mirror with a memory? La confezione dell’immaginario coloniale, in Paolo Bertella Farnetti, Adolfo Mignemi, Alessandro Triulzi (a cura di), L’Impero nel cassetto. L’Italia coloniale tra album pubblici e archivi privati, Milano, Mimesis, 2013, pp. 81-107.

[32] Si trattava di una prassi comune, in atto in musei coloniali europei “coevi” come il Musée du Trocadéro di Parigi, cfr. Beatrice Falcucci, Visualizing colonial power: museum exhibitions and the promotion of imperialism in France, Belgium, and Italy, “Nuncius”, 2021 (in stampa).

[33] Luigi Federzoni, 1927. Diario di un ministro del fascismo, Firenza, Passigli Editore, 1993, p. 90.

[34] Luigi Santomauro, La nuova sede del Museo Coloniale a Villa Borghese, “L’Azione Coloniale”, a. 2, n. 43, 24 novembre 1932, p. 3.

[35] Carlo Rossetti, Origini del Museo dell’Africa italiana, “Africa Italiana”, 1941, n. 19 (6), p. 16

[36] Valeria Deplano, L’Africa in casa. Propaganda e cultura coloniale nell’Italia fascista, Firenze, Le Monnier, 2015, pp. 35-72.

[37] Piccola Guida del Museo dell’Africa italiana, Roma, Tusculum, 1950.

[38] Guglielmo Narducci, Il Museo dell’Africa italiana, “L’Italia d’oltremare”, 1941, n. 6 (9), pp. 140-141.

[39] Elenchi dei film in carico al Museo Coloniale, 23 maggio 1946 e 3 luglio 1946, in ASDMAE, USMAI, pac. 19, fasc. 113, s.fasc. 5 Films in carico al museo coloniale.

[40] Lettera del direttore del Museo dell’Africa italiana Massimo Adolfo Vitale all’Ufficio Studi del MAI, che accompagnava la lista delle pellicole conservate nella cineteca del Museo, 3 giugno 1946, in loc. cit. in nota 47.

[41] Le Cronache dell’impero avevano un intento di approfondimento incentrato sulle risorse dell’AOI e sull’azione italiana; per Mino Argentieri l’impalcatura delle Cronache era “lineare, la regia aliena dalla ricerca di effetti, il montaggio piano […]. Lo stile si incagliava quando il cronista si sbilanciava a tessere gli encomi della laboriosità italica”, cfr. Mino Argentieri, L’occhio del regime. Informazione e propaganda nel cinema del fascismo, Firenze, Vallecchi, 1979, p. 124.

[42] Gianmarco Mancosu, L’impero visto da una cinepresa: il reparto “Africa Orientale” dell’Istituto Luce, in Valeria Deplano e Alessandro Pes (a cura di), Quel che resta dell’impero. La cultura coloniale degli italiani, Milano, Mimesis, 2014, pp. 259-278 (p. 272);Ruth Ben-Ghiat, Italian Fascism’s Empire Cinema, Bloomington and Indianapolis, Indiana University press, 2015, pp. 61-73.

[43] Elenco delle films in carico al Museo Coloniale, 3 luglio 1946, in loc. cit. in nota 47.

[44] Maria Francesca Piredda, FILM & MISSION. per una Storia del Cinema Missionario, Roma, Ente per lo spettacolo, 2005.

[45] La Ambrosio film, nel 1909, produsse una serie di filmati girati da Roberto Omegna in Eritrea, che possono considerarsi come i primi documentari coloniali italiani, cfr. Aldo Bernardini, Cinema muto italiano. I film dal vero 1895-1914, Gemona, La cineteca del Friuli, 2002, pp. 110-122; Silvio Alovisio, La scuola dove si vede. Cinema ed educazione nell’Italia del primo Novecento, Torino, Kaplan, 2016, p. 67.

[46] Luca Comerio fu un celebre fotografo e cineasta che operò nei primi decenni del Novecento. In quanto fotografo della Real Casa, egli godeva di un prestigio e di margini di manovra molto ampi, che permisero alla sua casa di produzione di produrre un gran numero di pellicole sul conflitto italo-turco e sulla Prima guerra mondiale, cfr. Elena Degrada, Elena Mosconi, Silvia Paoli (a cura di), Moltiplicare l’istante: Beltrami, Comerio e Pacchioni tra fotografia e cinema, Milano, Il Castoro, 2007.

[47] Ernesto G. Laura, Le stagioni dell’aquila: storia dell’Istituto Luce, Roma, Ente dello Spettacolo, 2000; Pierre Sorlin, A Mirror for Fascism. How Mussolini Used Cinema to Advertise his Person and Regime, “Historical Journal of Film, Radio, and Television”, 2007, n. 27 (1), pp. 111-117.

[48] Fiamma Lussana, Cinema educatore. L’Istituto Luce dal fascismo alla liberazione 1924-1945,Roma, Carocci, 2018, pp. 47-48.

[49] Gianmarco Mancosu, L’impero visto da una cinepresa, cit., pp. 259-278.

[50] Gianmarco Mancosu, Quando il cinema si fa regime. L’Istituto Luce e l’oltremare fascista, in Paola Scarnati e Letizia Cortini (a cura di), La conquista dell’impero e le leggi razziali, Roma: Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, 2020, pp. 85-86; Pierluigi Erbaggio, Istituto Nazionale Luce: A National Company with an International Reach, in Giorgio Bertellini (a cura di), Italian Silent Cinema: A Reader Londra, John Libbey, 2013, pp. 221-231.

[51] Sebbene i primissimi anni del regime non segnarono una netta discontinuità nelle linee di politica coloniale rispetto al periodo liberale, la sostituzione del sottosegretario degli esteri Salvatore Contarini con Dino Grandi nel 1925 segnò l’inizio di un nuovo corso che portò ad azioni più aggressive e rivendicative, cfr. Sergio Romano, La politica estera fascista. Un dramma in due atti, “Il politico”, 2011, n. 76 (3), pp. 311-326; Enzo Collotti, Fascismo e politica di potenza. Politica estera 1922-1939, Milano, La Nuova Italia, 2000, pp. 129-145.

[52] Nicola Labanca, Oltremare. cit, pp. 140-141; Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi, Milano, Mondadori, 1997.

[53] Presso il Luce trovarono posto la cinemateca agricola; quelle industriale e di propaganda e istruzione; d’arte e istruzione religiosa; di cultura nazionale, militare e d’istruzione e propaganda; quella turistica e di propaganda marinara, igienica e di prevenzione sociale; quella di propaganda e cultura all’estero e nelle colonie. A queste sezioni si aggiunsero quelle tutte interne all’Istituto, ovvero la sezione fotografica e quella adibita alla redazione dei cinegiornali, cfr. Federico Caprotti, Information management and Fascist identity. Newsreels in Fascist Italy, “Media History”, 2005, n. 11 (3), p. 183. A partire dai primi anni Trenta, l’attività delle cinematiche andò a ridursi, probabilmente per via del fatto che l’attività del Luce si orientò di più verso la produzione di filmati politico-propagandistici come cinegiornali e film fiction, cfr. F. Lussana, Cinema educatore, cit., pp. 111-130.

[54] A titolo esemplificativo, si vedano i film La quarta sponda d’Italia, 1929(conservato presso l’Archivio Storico dell’Istituto Luce con il titolo Tripolitania. La quarta sponda d’Italia, datato tra il 1924 e il 1931) e Sulle orme dei nostri pionieri, Istituto Nazionale Luce, 1936.

[55] Verbale consiglio d’amministrazione del Luce, 28 maggio 1935, in Archivio di Stato di Forlì-Cesena (ASFC), fondo Giacomo Paulucci Di Calboli Barone (GPDCB), b. 250 Istituto Nazionale Luce 1925-1940, fasc. 5 Verbali delle sedute del Consiglio d’Amministrazione. Anno XIII.

[56] Lettera inviata da Benito Mussolini a Giacomo Paulucci di Calboli e ai rappresentanti dei Ministeri della Guerra, della Marina, dell’Aeronautica, delle Colonie e alla MVSN il 7 settembre 1935, in ASFC, GPDCB, b. 247 Istituto Nazionale Luce 1925-1940, fasc. Presidente del Reparto foto-cinematografico Luce per l’Africa Orientale. Settembre 1935, s.fasc. “Reparto Cinematografico A.O”.

[57] Gianmarco Mancosu, L’impero visto da una cinepresa,cit., pp. 262-264.

[58] Lettera di Alessandro Lessona, sottosegretario alle Colonie, a Benito Mussolini, 11 settembre 1935. Designazione del Dott. Umberto Giglio, direttore del Museo Coloniale, quale rappresentante dell’amministrazione coloniale in seno al Comitato tecnico per il nuovo Reparto foto-cinematografico per l’Africa Orientale, in Archivio Centrale dello Stato (ACS), fondo Presidenza del Consiglio dei Ministri (PCM) 1934-36, b. 2046, fasc. 17/1 n. 3422, s.fasc. 34 Costituzione del “Reparto Foto-cinematografico per l’Africa Orientale” dell’Istituto Nazionale Luce.

[59] I nuovi padiglioni del Museo Coloniale di Roma, Giornale Luce B1132, 21 luglio 1937, Archivio Storico dell’Istituto Luce.

[60] Un articolo apparso ne “L’Italia coloniale” elenca i manufatti giunti dalla campagna d’Etiopia: si trattava di materiale ad alto contenuto propagandistico, che poteva dimostrare “l’appoggio straniero all’Abissinia del Negus” e “il contributo di eroismo e sangue dei soldati e delle camicie nere”. Il museo coloniale, gioiello dell’Urbe, “L’Italia Coloniale”, n. 14, 15 settembre 1937, p.137.

[61] Enrico Castelli, Dal collezionismo etnografico al museo di propaganda: la parabola del museo coloniale in Italia, in Nicola Labanca (a cura di), L’Africa in vetrina, Treviso, Pagus Edizioni, 1992, pp. 107-121. Castelli cita un documento dell’Archivio del Museo Africano oggi irreperibile.

[62] Comunicazione del Comando Superiore dell’Africa Orientale, 28 marzo 1936, in Archivio Storico del Museo della Guerra di Rovereto (ASMGR), fasc. Sala Coloniale, s.fasc. Cimeli dalla guerra italo-etiopica.

[63] Nota n. 97414, redatta da Giacomo Paulucci di Calboli e allegata ai documenti sulla convenzione tra Istituto Luce, Ministero dell’Africa italiana e Ministero della Cultura Popolare, 3 novembre 1937, in ACS, PCM 1934-36, b. 2084, fasc. 17/7 n. 6643, s.fasc. 52 Impero d’Etiopia – Reparto foto-cinematografico nelle terre dell’impero. Convenzione Governo Generale AOI – Luce.

Beatrice Falcucci

è assegnista di ricerca presso l’Università dell’Aquila, dove insegna Storia Contemporanea, e Fellow presso l’Istituto Neerlandese di Roma (KNIR). Dopo il dottorato presso l’Università di Firenze è stata borsista all’American Academy di Roma e presso la Fondazione Einaudi di Torino. Si occupa di cultura coloniale in Italia e le sue continuità post-coloniali, costruzione dell’identità nazionale e museologia coloniale. La sua tesi di dottorato sulle collezioni coloniali in Italia ha vinto il Premio Spadolini (2021) ed è in via di pubblicazione come monografia. Sui temi delle sue ricerche ha pubblicato su «Passato e presente», «Italia contemporanea», «Modern Italy», «Nuncius» e co-curato il volume Repositories. Per un contro-archivio della colonialità tra storia, arti e visualità.

Gianmarco Mancosu

è British Academy Postdoctoral Fellow presso la School of Advanced Study della University of London, docente a contratto in Storia Contemporanea presso l’Università di Sassari e – per il 2023 – Intesa San Paolo Fellow presso il Centre for Research in the Arts, Social Sciences and Humanities della University of Cambridge. Ha conseguito il suo primo dottorato in Storia Contemporanea presso l’Università di Cagliari (2015), e un secondo dottorato in Italian Studies presso l’University of Warwick. Nelle sue ricerche, si occupa di storia e cultura dell’Italia coloniale e post-coloniale, di storia degli audiovisivi, di memorie del colonialismo nell’Italia moderna e contemporanea, e delle comunità italiane nelle ex colonie. Su questi temi ha pubblicato numerosi contributi scientifici e divulgativi, tra cui la monografia Vedere l’impero. L’Istituto Luce e il colonialismo fascista (Mimesis, 2022).

Rispondi

%d