di Maria Lepre
La rivoluzione della seta artificiale
L’industria della seta artificiale rivoluzionò il settore della produzione tessile, vivendo un vero e proprio boom nel primo dopoguerra. Fino ad allora la domanda di vestiario era stata soddisfatta con materie prime di origine vegetale e animale, i cui costi aumentavano i prezzi dei prodotti ottenuti. Con l’avvento della seta artificiale, che prevedeva costi di produzione più bassi, si aprirono nuove fette di mercato con prodotti destinati anche a classi sociali meno abbienti, creando una rivoluzione nell’abbigliamento.
L’industriale italiano che per primo capì la forza e i possibili guadagni nel settore delle fibre tessili artificiali fu il barone Alberto Fassini Camossi che fece della sua Società Generale Italiana della Viscosa una delle tre maggiori società italiane che dominarono il mercato nazionale e internazionale. Fassini fu per circa un decennio l’unico imprenditore italiano ad investire nel settore della seta artificiale. Acquistò nel 1907 dal conte Hilaire de Chardonnet il primo stabilimento italiano in grado di produrre filati artificiali. Sempre nei primi anni del Novecento fece costruire altri due stabilimenti, uno a Vigodarzere e uno a Pavia. Negli anni Venti avviò un’attenta politica di espansione, costruendo stabilimenti di media grandezza, coordinati tra loro per ridurre al minimo i costi di produzione[1]. Nel 1922 la società iniziò la costruzione dello stabilimento romano di via Prenestina e negli anni successivi aprì altri due stabilimenti, uno a Rieti, fortemente voluto da Mussolini, e l’altro a Napoli[2]. L’Italia riuscì in meno di venti anni ad affermarsi sul mercato, nel 1925, come primo paese produttore europeo e primo paese esportatore mondiale[3]. Primato che conserverà fino al 1928.
La Viscosa di via Prenestina
Costruita su via Prenestina all’incrocio tra via dell’Acqua Bullicante, via di Portonaccio e Largo Preneste, la fabbrica romana si estendeva per una superficie di ben 65.000 mq. Le motivazioni legate alla scelta di questo territorio furono la presenza di un corso d’acqua dolce, fondamentale per la produzione della seta artificiale; la vicinanza di infrastrutture quali la rete ferroviaria e un bacino di manodopera a basso costo.
La grande richiesta di manodopera della Viscosa, considerata una delle fabbriche più grandi della capitale, fu tra le motivazioni che spinsero centinaia di uomini e donne a recarsi a Roma nella capitale in cerca di lavoro. Le maestranze della Viscosa provenivano da ogni regione d’Italia: Veneto, Friuli, Campania, Basilicata, Abruzzo, Molise e ovviamente Lazio. Continuava dunque il processo migratorio interno che iniziò nei primi anni del Novecento e che divenne sempre più massiccio durante la Prima guerra mondiale, periodo in cui uomini e donne furono costretti a migrare verso la capitale per la miseria delle campagne. Negli anni Venti del Novecento questo fenomeno migratorio aumentò a causa della nascita di nuovi stabilimenti industriali nel suburbio orientale di Roma, andando ad accrescere le file dei baraccati e degli abitanti delle borgate, future dimore di molte maestranze della Viscosa. Fu in questa periferia, diventata operaia per l’importante processo di industrializzazione, che il 5 settembre 1923 aprì lo stabilimento romano della Viscosa occupando circa 2500 maestranze.
Con l’arrivo della fabbrica arrivano anche i primi servizi, che, almeno nei primi anni, sono slegati dai dettami del regime fascista in campo assistenziale. Come suggerisce Victoria De Grazia si tratta di servizi che piuttosto vanno ricondotti al paternalismo aziendale inglese e americano nato nella metà dell’Ottocento[4]. Seguire il modello inglese e americano significava abbandonare la rigida vigilanza repressiva della polizia della prima fase di industrializzazione e sostituirla con dei metodi più persuasivi, quali la creazione di maggiori servizi. E la Viscosa di servizi ne offriva veramente tanti.
Lo stabilimento si estendeva su 14 ettari ed era suddiviso in due parti: una destinata alla produzione e l’altra, di pari grandezza, destinata alla maggior parte delle opere assistenziali. Nella parte prettamente produttiva c’era il nido che accoglieva circa venti neonati, dove le operaie potevano recarsi per allattare tre volte in un turno di otto ore. Seguendo il lungo viale della fabbrica si arrivava alla mensa degli impiegati e, subito dopo, a quella degli operai, gestite dalla cooperativa Nuova Preneste, diretta dalla stessa Società. Seguendo invece le mura della fabbrica troviamo gli spacci, uno alimentare e una merceria, destinati sia alle maestranze che agli abitanti del quartiere, motivo per cui le due strutture sono collocate lungo la via Prenestina con una porta-finestra diretta sulla strada.
Lasciando alle spalle la parte dell’opificio prettamente dedicata alla produzione del raion, salendo una lunga scala biforcata, si arriva a una verde collina dove sono collocati i dormitori interni (quattro edifici da 120 posti letto ciascuno), due cappelle, dove la domenica seguivano le funzioni religiose tutti gli abitanti del quartiere, un edificio residenza per le suore, e un refettorio dove prendeva vita l’asilo, il doposcuola, le scuole serali e i corsi di cucito per le operaie. Tutte attività seguite dalle suore dell’ordine salesiano di Santa Maria Mazzarello di piazza di Santa Maria Ausiliatrice. Poco più giù dalla collina il campo sportivo. Ovviamente con la creazione dell’Opera Nazionale Dopolavoro avvenuta nel 1925 e con il suo passaggio al controllo del Partito Nazionale Fascista nel 1927, la situazione del dopolavoro avrà ricadute differenti. Con il passare degli anni l’assistenza sociale per le maestranze si manifesta anche attraverso forme di sussidio monetarie ed elargizione di doni, tra cui la Befana fascista.


Perdere il lavoro, dunque, non significa solo perdere una forma di reddito ma anche perdere cibo a basso costo, istruzione per i propri figli e tanto altro. Si crea un vero e proprio rapporto di dipendenza dalla fabbrica che va oltre la retribuzione economica e che pervade ogni aspetto della vita. Il progetto è molto semplice: creare una grande fabbrica senza operai, ma popolata da lavoratori fedeli al padrone e allo Stato. Allo stesso tempo le agevolazioni miravano anche a sedare un forte malcontento, in quanto la vita delle maestranze della Viscosa non era di certo la più rosea.
Per competere sui mercati internazionali Fassini abbassò ulteriormente i costi di produzione. Piuttosto che investire sull’innovazione tecnologia e ottimizzare le fasi del lavoro per aumentare la produttività, puntò ad abbassare il costo del lavoro, riducendo le paghe e aumentandone i carichi, assegnando maggiori competenze ad ogni operaio, e prolungando l’orario di lavoro fino a sedici ore, provvedimenti resi possibili dalla legislazione del Governo Mussolini. Inoltre, il mancato investimento sugli impianti e sui macchinari comportò una strutturale mancanza di sicurezza negli ambienti, sacrificando la salute di centinaia di operai[5]. In aggiunta l’intossicazione da solfuro di carbonio (solfocarbonismo), utilizzato nella produzione, causava problemi alla salute di diversa entità, dai disturbi alla vista e alle vie respiratorie fino alla sterilità, all’insensibilità degli arti, alle convulsioni e alla morte[6]. E, in particolar modo, causava disturbi mentali che potevano indurre a comportamenti pericolosi verso sé stessi e verso gli altri, motivo per cui molti operai furono ricoverati, contro la loro volontà, presso l’Ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà di Roma. Il solfocarbonismo sarà riconosciuto come malattia professionale solo nel 1938, esclusivamente agli operai di alcuni reparti[7].
Il progetto di creare un rapporto di dipendenza dalla fabbrica, che mettesse a tacere ogni forma di rivendicazione da parte della classe operaia, non andò a buon fine nella Viscosa di via Prenestina. A distanza di poco più di un anno dall’apertura dello stabilimento iniziano i primi malcontenti. Il passaggio del salario da economia a cottimo, l’imposizione del sindacato fascista e l’eliminazione dell’indennità di carovita sono le cause scatenanti delle mobilitazioni delle maestranze della Viscosa tra la primavera del 1924 e i primi mesi del 1925. L’apice di queste mobilitazioni sarà lo sciopero del 9 dicembre 1924, organizzato dalla cellula comunista presente nello stabilimento e definito come «un procedimento che non ha precedenti in industrie a lavorazione continua». Il gruppo di fabbrica, legato al luogo di produzione, si sostituisce per importanza (proprio a partire dal 1924 con la fase di “bolscevizzazione” determinata da Gramsci e dal gruppo torinese di Ordine Nuovo) alla sezione territoriale nell’organizzazione del partito. La cellula è quindi un punto di riferimento importante, ha la capacità di promuovere pratiche agitatorie e controllare in modo capillare i livelli di militanza all’interno dei vari momenti della vita[8]. Nonostante la minuziosa organizzazione dello sciopero e la massiccia partecipazione, i risultati non furono raggiunti e la direzione dello stabilimento rispose con circa 120 licenziati, prima fra tutti coloro i quali furono considerati i promotori dello sciopero[9]. Continuavano dunque quelle epurazioni politiche di operai socialisti e comunisti che nei primi anni del fascismo colpirono molti stabilimenti romani, chiara anticipazione di quella che di lì a poco sarebbe stata una delle prime “leggi eccezionali del fascismo”.
In seguito al crollo di Wall Street nel 1929, lo stretto legame con il regime e con la persona di Mussolini favorirono a Fassini gli incentivi statali necessari ai suoi stabilimenti di seta artificiale. Per superare la crisi il governo emanò dei provvedimenti legislativi per incentivare le fusioni societarie. Fu così che Fassini nel 1931 diede vita al gruppo CISA Viscosa. I primi anni Trenta furono anni di crisi per il raion ma la politica autarchica del regime fascista fu in grado di risollevare l’industria italiana. L’autarchia destinò le fibre tessili artificiali non più ai mercati internazionali ma al mercato interno. A tale scopo aumentò i dazi sulle esportazioni e, grazie ai decreti legislativi, impose l’utilizzo delle fibre autarchiche alle industrie tessili italiane, tra le quali rientrava anche la seta artificiale. Fu grazie a questi provvedimenti che lo stabilimento diventa sempre più legato alla politica economica del regime. La Viscosa non solo diventa uno dei motori fondamentali dell’autarchia ma in seguito lo sarà anche dell’economia di guerra, legata prima alla spedizione d’Etiopia, poi in sostegno di Franco alla Guerra Civile Spagnola e successivamente al Secondo conflitto mondiale, producendo divise militari e tessuti per i paracaduti.
Per tutta la durata della Seconda guerra mondiale la fabbrica non arresterà mai la produzione, nemmeno durante i bombardamenti degli Alleati, unico periodo in cui le maestranze videro aumentare i salari. Ma in quegli stessi edifici, tra quelle macchine, nella mensa, nei dormitori, alcuni di quegli stessi operai continueranno a cospirare contro il fascismo, diventando parte attiva della Resistenza.
La Resistenza
La Resistenza al Fascismo non inizia con l’armistizio di Cassibile, ma va anticipata di circa un ventennio. La resistenza italiana ha una premessa importantissima nella risposta alla violenza fascista del primo dopoguerra, quando i fascisti non sono ancora al potere. Una violenza che mina la libertà di associazione, di stampa, di riunione, quando i fascisti incendiano le camere del lavoro, le sedi di partito, dei giornali, delle cooperative, bastonano e uccidono militanti[10].
Abbiamo visto come nella fabbrica della Viscosa la resistenza al sindacato fascista inizi con lo sciopero del 1924, a cavallo tra la fine dello Stato Liberale e l’instaurazione dello Stato Totalitario. E in seguito non si arresta. Infatti, alcuni documenti conservati presso il casellario giudiziale ci attestano come le proteste e le insubordinazioni nello stabilimento sono continuate fino alla fine degli anni Venti.
Il seme della rivolta antifascista prende vita durante il secondo conflitto mondiale, in cui si manifesta l’incapacità e la follia criminosa del Fascismo, e la servitù alla Germania di Hitler. Un seme che germoglierà in tutta la sua forza vitale dopo l’8 settembre 1943, quando la resistenza abbraccia le armi e diventa partigiana.
Molti uomini e molte donne della Viscosa furono partigiani. Avevano pienamente coscienza che il peggioramento delle loro condizioni di vita sia in fabbrica che fuori, nato dal sodalizio tra industriali e Mussolini, era tutelato dalle legislazioni fasciste. Inoltre molti di quegli operai vivevano nelle borgate, quelle stesse borgate dove il regime aveva concentrato malcontento; dove aveva ricollocato gli abitanti perché considerati “indegni” di vivere al centro della città, vetrina dell’impero; dove sfruttava i lavoratori senza garantire una vita dignitosa; dove il moto di rivolta al Fascismo fu quasi istintivo. Nelle borgate il Fascismo era un nemico naturale perché li aveva segregati e un nemico di classe perché l’edile che viveva in borgata era sfruttato dal costruttore che immancabilmente era fascista[11].
È proprio in questa periferia a sud est della città che si sviluppa la lotta armata contro il nazifascismo, ed è proprio qui che gli Alleati lasciano cadere le prime bombe. Le periferie erano obiettivi da colpire perché lungo le vie consolari, disposte a raggiera, si estendevano le stazioni ferroviarie di smistamento e di transito, gli scali merci, i depositi, gli aeroporti, le officine di riparazione e le industrie mobilitate a scopo bellico.
La Viscosa fu colpita dagli alleati il 14 marzo del 1944, in uno dei quattro bombardamenti più violenti che si abbatterono sulla capitale, ma non causò danni tali da arrestare la produzione[12]. Lo stabilimento continuò a fornire divise e tessuti militari per tutta la durata del conflitto, aumentò il salario del 20-30% come da provvedimento del 21 aprile 1943, e in caso di necessità garantì protezione nel suo rifugio antiaereo.
Colpendo le stazioni gli Alleati tentavano di spezzare i rifornimenti dell’esercito italo tedesco impegnato sulla linea Gustav a Cassino. Per questa ragione le stazioni, controllate da comandi tedeschi e militari fascisti, furono oggetto di frequenti mitragliamenti, ma anche teatro di sabotaggio da parte delle formazioni partigiane. Negli ultimi mesi del 1943 un vero e proprio manuale di sabotaggio verrà scritto e diffuso clandestinamente con la copertina dell’orario ferroviario, Il libretto rosso dei partigiani, che insegna come manomettere le vie di comunicazione, come danneggiare i macchinari industriali, come interrompere la fornitura di energia e molto altro[13].
Nell’VIII zona affidata ai GAP, che comprendeva Tor Pignattara, Centocelle, Borgata Gordiani e Quadraro, con il fronte di guerra fermo a sud, la periferia, compresa tra le vie consolari Prenestina, Casilina e Tuscolana, diventa un’area strategica di fondamentale importanza. E dove, durante l’occupazione nazifascista, transitavano i convogli ferroviari tedeschi con uomini, mezzi e rifornimenti.
Una zona dove è molto radicato il Movimento Comunista d’Italia, meglio conosciuto come il suo organo di informazione: Bandiera Rossa. Il movimento nacque nell’agosto 1943 da La Scintilla, un gruppo cospirativo romano che prese le distanze dal PCI denunciandone la progressiva moderazione e l’abbandono delle istanze rivoluzionarie[14]. Bandiera Rossa era a favore dell’abbattimento della corona e della caduta del governo Badoglio, in completo disaccordo con il PCI che invece anteponeva l’unità nazionale schierandosi con le forze monarchiche e conservatrici. Infatti quest’ultimo divenne parte integrante del Comitato di Liberazione Nazionale da cui Bandiera Rossa prese le distanze. Per i militanti di Bandiera Rossa la Resistenza era concepita come prologo della rivoluzione socialista[15].
Tra la caduta di Mussolini e l’armistizio di Cassibile Bandiera Rossa vide un’impennata di adesioni, tra cui anche i figli di Giacomo Matteotti, Carlo e Matteo. L’organizzazione aveva circa 2124 componenti, suddivisi in quaranta gruppi. Il Prenestino, quartiere dove ha sede la Viscosa, è uno dei gruppi con i maggiori militanti (circa 100)[16]. Bandiera Rossa ebbe largo seguito nelle periferie romane e si allargò oltre la città, verso le aree rurali e gli altri centri del Lazio. Ma a caratterizzare il movimento è specialmente il suo radicamento nelle borgate.
La sua attività non fu solo strettamente militare, ma politica. I suoi principali scopi erano accumulare armi e materiali per quella che sarebbe stata l’insurrezione socialista e preparare per quel momento il maggior numero di persone possibile[17]. Bandiera Rossa diventa una delle formazioni più temute, per la capillare presenza nel tessuto sociale, con le cellule nei luoghi di lavoro e nei rioni popolari, di conseguenza diventa anche una delle organizzazioni più ricercate dai nazifascisti[18]. Come suggerisce Silvio Antonini, nel momento di prelevare i prigionieri dopo l’attentato di via Rasella, le carceri romane ospitano numerosi detenuti di Bandiera Rossa, e lo dimostra il fatto che sulle 335 vittime delle Fosse Ardeatine, almeno 52 furono di Bandiera Rossa[19].
Nella zona compresa tra Torpignattara e la Certosa, dove si concentrò maggiormente l’attività militare, Bandiera Rossa nacque dall’incontro di Ercole Favelli, Vincenzo Pepe e Tigrino Sabatini, operaio della Viscosa[20]. Tigrino arriva nella capitale da Abbadia San Salvatore, dove ventenne partecipa a duri scontri tra fascisti e socialisti. Si trasferisce a Roma e si unisce ben presto alle organizzazioni clandestine. Nel 1941 viene assunto alla Viscosa e dopo qualche anno si trasferisce alla Breda, ma per poco tempo. Si fa presto assumere dalla Cidonio, una ditta che aveva ottenuto dai tedeschi l’appalto per la ricostruzione e la manutenzione delle linee ferroviarie attorno la capitale. Il suo lavoro gli permetterà di compiere più facilmente azioni di sabotaggio. Tigrino è caposettore della seconda zona, si occupa della diffusione della stampa clandestina e prende parte a numerosi scontri armati. Come quello dell’11 settembre in cui, insieme a Vincenzo Pepe, Giovanni Pepe ed Ercole Favelli, a pochi metri dall’aeroporto di Centocelle, tiene testa per dodici ore al fuoco nemico[21].
Il 24 gennaio 1944, in seguito a delazione, Tigrino Sabatini viene catturato con altri combattenti di Bandiera Rossa e portato nel carcere di via Tasso.
Il carcere di via Tasso non nasce come carcere ma come semplice palazzo. Di proprietà del principe Ruspoli, una volta terminato nel 1939, fu dato in affitto all’ambasciata tedesca con sede a villa Wolkonsky, distante poche decine di metri. Dopo l’8 settembre 1943 e fino alla liberazione di Roma, per nove mesi fu la sede del comando della Polizia di sicurezza (SIPO) e del Servizio di sicurezza (SD) delle SS, sotto il comando del tenente colonnello Herbert Kappler. L’edificio diventa in parte caserma e, dopo aver murato le finestre e posto grate sopra le porte, diventa luogo di prigionia e tortura per antonomasia. Qui venivano reclusi i prigionieri in attesa di essere interrogati, poi sottoposti al Tribunale di guerra tedesco e trasferiti in altre sedi, come Regina Coeli, il carcere di Roma, in altre carceri tedeschi, o nei lager in Germania, Austria o Polonia.


Tigrino Sabatini fu una delle duemila persone che passarono per questo carcere. Qui, nella cella numero 13, incontra anche Don Pietro Pappagallo, guida spirituale della Viscosa dal 1926 al 1928, arrestato per aver ospitato perseguitati politici, militari in fuga ed ebrei e per aver fornito loro documenti falsi. Sarà l’unico sacerdote tra le 335 persone trucidate alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 44 in seguito all’attentato di via Rasella[22]. Alla sua figura e a quella di Giuseppe Morosini si ispirerà Roberto Rossellini per il suo film Roma città aperta.
Divisero con loro la cella Oscar Caggeggi, capo dell’omonima formazione partigiana, Aladino Govoni, militante di Bandiera Rossa, Vincenzo Palermo, Josef Reider, Angelo Ioppi e Armando Testorio, spia delle SS, falso carcerato che aveva il compito di carpire le informazioni non confessate durate le torture.
Tigrino successivamente viene trasferito nel carcere di Regina Coeli, processato il 22 febbraio dal Feldgericht, il Tribunale militare tedesco di Roma, e condannato a otto anni di reclusione. Il 5 aprile viene processato nuovamente e questa volta condannato morte. È fucilato al Forte Bravetta il 3 maggio 1944. Addosso gli fu trovato un biglietto con scritto: «Non sfruttate la nostra morte, non dimenticate il perché siamo morti».
Per molti anni Bandiera Rossa e i suoi militanti hanno avuto scarsa fortuna storiografica, ma non ci sono dubbi nell’affermare che si trattò del principale movimento comunista dissidente e una della più importanti organizzazione della Resistenza romana.
La Storia nelle strade
La storia di alcuni militanti di Bandiera Rossa, come Tigrino Sabatini, Maria Baccante, Angelo Galafati e Carlo Luchetti, congiuntamente alle storie di partigiani e partigiane di altre formazioni, sono raccontate nel libro La Storia nelle Strade: Pigneto ’44 RIBELLI!, a cura del Centro di Documentazione Maria Baccante Archivio Storico della Viscosa, edito dalla Red Star Press e illustrato da Alessio Spataro, con il contributo del Museo Storico della Liberazione di Roma.
Il libro è il risultato di una ricerca iniziata circa due decenni fa e non ancora conclusa. Il suo intento è ricostruire la macrostoria del Novecento, come in questo caso la guerra di liberazione dal nazifascismo, attraverso le numerose microstorie di uomini e donne che furono fondamentali in quegli eventi ma del tutto ignorati dalla storiografia. Al suo interno sono narrate le vicende di tredici partigiani del quartiere Pigneto Prenestino.
Seguendo la metodologia storica tracciata da Marc Bloch, secondo cui la particolarità dell’osservazione storica è quella di essere una «conoscenza per tracce»[23], la ricerca contenuta nel libro parte proprio dall’osservazione delle tracce lasciate nel quartiere: palazzi bombardati, ponti ricostruiti, strade che furono teatro di azioni e cospirazioni partigiane, scritte, epigrafi, monumenti piccoli e meno piccoli sono le testimonianze del passato di questo territorio. Successivamente queste tracce vengono messe in relazione alle testimonianze dirette di quei giorni, tramite le interviste ai partigiani o ai loro familiari, alle fonti d’archivio, come quelle dell’Archivio Storico della Viscosa, alla stampa e alla memorialistica. Ma se nel metodo segue un agire consolidato, la prospettiva è del tutto innovativa. Come scrive uno degli storici che introduce il libro, gli autori e le autrici indicano «una prospettiva che permette di attribuire alla ricerca storica una dimensione sociale e allo stesso tempo una tendenza a prolungare le proprie sensibilità in maniera ampia e duratura, mettendo radici nel territorio che oggi sono ancora più forti grazie alla presenza del Centro di Documentazione che ha sede nel Parco delle Energie e che raccoglie tante e tante altre storie di partecipazione, di conflitto e di resistenza»[24].
Il lavoro di ricerca, iniziato negli anni Novanta, ha avuto come obiettivo la consapevolezza del valore sociale della memoria e della storia come strumento di riappropriazione, esattamente come veniva portato avanti nelle battaglie per la riconquista del verde pubblico. Come nei primi anni Novanta, quando il comitato di quartiere Pigneto Prenestino e gli abitanti occupano lo stabilimento della Viscosa per opporsi a una grande speculazione edilizia che prevedeva la costruzione di un centro commerciale. Lo stabilimento, oramai abbandonato da più di quarant’anni, era ricco di vegetazione spontanea grazie al processo di rinaturazione, trasformandosi sempre di più nel suo aspetto originario di fine ottocento, prima dell’arrivo della fabbrica, quando era terreno agricolo del suburbio orientale[25]. Un’oasi tra le polveri sottili di uno dei quartieri più inquinati d’Europa, a cui gli abitanti non erano disposti a rinunciare. Fu in quel contesto di occupazione che vengono ritrovati i documenti della fabbrica, alcuni conservati nei faldoni, altri riversati sul pavimento in un evidente stato di abbandono. Nel 1995 le stesse persone occupano alcuni spazi della fabbrica, dando vita al Centro Sociale Ex Snia Viscosa e decidono di portare qui i documenti. Questa azione consapevole di recupero da parte degli abitanti, che dà inizio alla storia dell’Archivio Storico Viscosa, si è rivelata una scelta fortunata, non solo perché poco dopo scoppiò un incendio nei locali dove furono trovati i documenti, ma perché le storie contenute in quelle carte negli anni hanno restituito l’identità di migliaia di operai e operaie, una memoria collettiva dell’intero quartiere. Per tale motivo la Sovrintendenza archivistica del Lazio ha riconosciuto l’archivio di notevole interesse storico nel 2011.
Nonostante l’opposizione degli abitanti, i lavori nella vecchia fabbrica continuarono, fino a quando le ruspe, scavando per costruire i parcheggi del centro commerciale, intercettarono la falda acquifera forandola ed è così che nacque quello che oggi conosciamo come Lago Bullicante Ex Snia, un piccolo lago di acqua sorgiva tra gli alti e grigi palazzi dei quartieri romani. Da circa trent’anni le associazioni, i comitati, gli abitanti lottano per chiedere alle istituzioni di salvaguardare l’area naturalistica e l’archeologia industriale della fabbrica tramite il riconoscimento del Monumento Naturale a tutto il perimetro dello stabilimento, per tutelare le centinaia di specie animali e vegetali che abitano l’area e per non cancellare il passato e l’identità del quartiere. Perché come suggerisce Marc Bloch «il recupero della memoria collettiva è un punto di riflessione importante per ogni società, che da una migliore conoscenza del passato potrà meglio risolvere i problemi del presente»[26].

[1] Sulla storia dell’industria della seta artificiale cfr. A. De Margheriti, La seta artificiale nei confronti di quella naturale, Roma, A. Manuzio, 1925, pp. 9-16; G. Federico, Il filo d’oro. L’industria mondiale della seta dalla restaurazione alla grande crisi, Venezia, Marsilio, 1994, pp. 59-62.
[2] Osservatorio della Cisa Viscosa (a cura di), La C.I.S.A. Viscosa nel suo XXV anniversario (1916-1941), Roma, M. Danesi, 1942, p. 25.
[3] B. Bianchi, I tessili: lavoro, salute, conflitto, in G. Sapelli (a cura di), La classe operaia durante il fascismo, Annali della Fondazione G. Feltrinelli, volume XX, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 980.
[4] V. De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, Bari, Laterza, 1981, p. 33.
[5] B. Bianchi, I tessili: lavoro, salute, conflitto, cit., p. 982.
[6] A. Ranelletti, Il solfocarbonismo professionale, in «Rassegna di medicina applicata al lavoro industriale», anno I, n. 5, settembre 1930.
[7] Soltanto con la legge del 19 marzo 1956 n. 303, l’assicurazione contro le intossicazioni da solfuro di carbonio viene estesa a tutti i processi della lavorazione della viscosa, quando la fabbrica di via Prenestina è già chiusa da un anno.
[8] Cfr. O. Massari, La sezione, in M. Ilardi e A. Accornero (a cura di), Il Partito comunista italiano. Struttura e storia dell’organizzazione (1921-1979), Annali della Fondazione G. Feltrinelli, volume XXI, Milano, Feltrinelli, 1981, pp. 154-155; F. Anderlini, La cellula, in M. Ilardi e A. Accornero (a cura di), Il Partito comunista italiano. Struttura e storia dell’organizzazione (1921-1979), Annali della Fondazione G. Feltrinelli, volume XXI, Milano, Feltrinelli, 1981, pp. ; P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. I, Torino, Einaudi, 1967.
[9] M. Lepre, La Viscosa di via Prenestina e il Fascismo. Conflittualità operaia e lo sciopero del 1924, Tesi di Laurea Magistrale, Università di Roma La Sapienza, A.A. 2015-2016, relatore Emmanuel Betta.
[10] R. Battaglia, Breve storia della Resistenza italiana, Roma, Editori Riuniti, 2007. Sulla Resistenza romana cfr. R. Bentivegna, Achtung Banditen! Roma 1944, Milano, Mursia Editore, 1983; C. De Simone, Roma città prigioniera. I 271 giorni dell’occupazione nazista (8 settembre ’43-4 giugno ’44), Milano, Mursia Editore, 1994; A. Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Roma, Donzelli, 1999.
[11] I. Insolera, P. Berdini, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica, Torino, Einaudi, 2011; G. Berlinguer, P. Della Seta, Borgate di Roma, Roma, Editori riuniti, 1976.
[12] L. Grassi, Ricovero antiaereo collettivo aziendale. Stabilimento Snia Viscosa largo Preneste (Roma), Relazione, 2015, <https://lagoexsnia.files.wordpress.com/2017/07/relazione_rifugio.pdf>.
[13] C. Armati (a cura di), Il libretto rosso dei partigiani. Manuale di resistenza, sabotaggio e guerriglia antifascista, Roma, Purple Press, 2009, p. 8.
[14] S. Antonini, Da Porta San Paolo alle Fosse Ardeatine. La storia di Bandiera Rossa nella Resistenza romana, in «Patria Indipendente», n. 10-11, 6 dicembre 2009, p. 29.
[15] S. Corvisieri, Bandiera Rossa nella Resistenza romana, Roma, Odradek, 2005, p. 13.
[16] Il sole è sorto a Roma, settembre 1943, patrocinato dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, Comitato Provinciale di Roma, 1965.
[17] R. Gremmo, I partigiani di “Bandiera Rossa”. Il “Movimento Comunista d’Italia” nella Resistenza romana, Biella, ELF, 2015, p. 42.
[18] S. Antonini, Da Porta San Paolo alle Fosse Ardeatine. La storia di Bandiera Rossa nella Resistenza romana, cit., p. 31.
[19] S. Corvisieri, Bandiera Rossa nella Resistenza romana, cit., p. 12.
[20] R. Gremmo, I partigiani di “Bandiera Rossa”. Il “Movimento Comunista d’Italia” nella Resistenza romana, cit., p. 36.
[21] I tigrotti di Mompracem, autobiografia di Giovanni Pepe, p. 19.
[22] A. Lisi, Don Pietro Pappagallo, “Un eroe, un santo”. 24-3-’44 Fosse Ardeatine (ricostruzione storica), Rieti, Libreria Moderna, 1995.
[23] M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Milano, Einaudi, 2009.
[24] Centro di Documentazione Maria Baccante Archivio Storico Viscosa (a cura di), La storia nelle strade: Pigneto ’44 RIBELLI!, Roma, Red Star Press, 2021, p. 18.
[25] C. G. Severino, Roma mosaico urbano. Il Pigneto fuori Porta Maggiore, Roma, Gangemi, 2005, p. 22.
[26] Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, cit.