Nel 1915 lo scrittore francese Romain Rolland dal suo esilio in Svizzera, fu insignito del premio Nobel per la letteratura. Antimilitarista convinto, divenne ben presto portavoce e punto di riferimento di quel movimento pacifista che, nonostante gli eventi dell’epoca, riuscì a mettere le prime radici in un’Europa sconvolta da quel disastro che avrebbe preso il nome di Prima Guerra Mondiale.
Ma nel 1916, di pacifismo, si parlava ancora poco (o per lo meno solo in alcuni ambienti) e pareva a molti che presto la guerra sarebbe finita. In realtà il 1916 fu un anno terribile costellato di eventi tremendi: solo nella battaglia di Verdun, sul fronte occidentale, persero la vita un milione di persone, in quella della Somme, si stima morirono circa 600.000 uomini. E per la prima volta, sui giornali dell’epoca, s’iniziò a parlare di “guerra totale”.
Ed è proprio a questo anno che è stato dedicato il convegno “L’Italia nella Prima Guerra Mondiale – 1916 dentro la guerra” svoltosi ieri presso la Sala della Regina di Palazzo di Montecitorio. L’incontro, organizzato dalla Camera dei deputati, ha voluto ricordare con questo secondo evento in programma, i cento anni della partecipazione italiana al conflitto mondiale.
Dopo il benvenuto di Flavia Piccoli Nardelli presidente della Commissione cultura della Camera dei deputati, Franco Marini presidente del Comitato storico-scientifico per gli anniversari di interesse nazionale, durante il suo discorso inaugurale, ha sottolineato come il 1916, rappresenti una vero e proprio spartiacque.
I cinque storici invitati Gustavo Corni (Università di Trento), Marco Mondini (Università di Padova), Giovanna Procacci (Università di Modena e Reggio Emilia), Lucio Fabi (consulente museale) e Bruna Bianchi (Università di Venezia) hanno messo in luce i vari aspetti e punti di vista della guerra “totale”.
“E’ stato un anno – ha spiegato Gustavo Corni– difficile da inquadrare, che sembrava collocarsi in modo non significativo nello sviluppo cronologico del conflitto. In realtà avvengono fatti molto importanti: dall’entrata della Romania in guerra all’offensiva Brusilov che fu la più grande offensiva condotta dall’Impero russo”.
E per gli italiani, il 1916, coincide non solo con la caduta del governo Salandra, ma anche con la “spedizione punitiva” durante la quale Asiago fu rasa letteralmente al suolo e un quarto di milione di persone morì. “ La Strafexpedition – ha sottolineato Marco Mondini – è stata una costruzione culturale e propagandistica ideata da Tullio Marchetti , un ufficiale dei servizi dell’intelligence, per dare del nemico un’immagine terribile: quella di un barbaro senza scrupoli”.
Del fronte interno ha invece parlato Giovanna Procacci evidenziando come il governo italiano abbia tenuto poco o nulla in conto ciò che nel frattempo stava accadendo nel Paese, dalla mancanza di viveri alla crescente disoccupazione interna con i primi scontri tra le forze socialiste e la polizia.
Lucio Fabi, il cui intervento ha riguardato i luoghi nei quali si è svolta parte della guerra, in particolare il Carso, ha raccontato come la presa di Gorizia sia stata la prima grande vittoria militare italiana o almeno come tale sia stata “venduta” al fronte interno. “Il Carso – ha sottolineato Fabi – è diventato con il tempo un luogo non solo di “attrazione turistica” ma anche un luogo di memoria e di scambio storico e culturale”.
Infine, Bruna Bianchi, con il suo intervento dal titolo “La folla, la fuga e la psichiatria di guerra” ha raccontato attraverso le molte immagini di soldati tornati dal fronte con problemi psichici gravissimi, la totale inadeguatezza del servizio psichiatrico italiano in quel periodo. “Inizialmente la malattia di questi soldati era stata vista come un’occasione di studio per la medicina in quanto si poteva vedere, nel vero senso della parola, l’insorgere della malattia. Ma ben presto si decise di dare, anche se molti psichiatri si rifiutarono, più importanza alla terapia, spesso violentissima, che alla diagnosi. L’intento era quello di rimandare i soldati il più velocemente possibile al fronte, non tenendo conto dei loro gravissimi problemi. Questi soldati – ha concluso Bianchi – erano uomini che non accettavano il modello di virilità imposto dalla guerra, di colui che riesce a rimanere insensibile anche di fronte alla morte dei suoi compagni”.