Siamo lieti di pubblicare l’articolo del professor Tommaso Casini, docente associato del Dipartimento di Comunicazione, arti e media “Giampaolo Fabris” dell’Università IULM, che precede la pubblicazione del contributo per gli Atti del Convegno Storia dell’arte storia della critica, storia politica l’entre deux guerres in Italia, Perugia, maggio 2018, in corso di stampa.
La percezione di quanto la produzione filmica e documentaria, frutto del binomio tra fascismo e cinematografia, possa e debba far parte degli strumenti di indagine delle vicende del ventennio è molto cresciuta negli ultimi anni. Le fonti audiovisive e fotografiche, al pari delle carte d’archivio e a stampa, sono entrante recentemente anche nell’orizzonte della critica d’arte. La documentazione del LUCE e non solo, grazie alla progressiva emersione dagli archivi e cineteche rendono disponibili on-line questi preziosi materiali per un rinnovato approccio storiografico, maggiormente unitario della complessità, che consente la contestualizzazione storico-critica più articolata della varietà delle fonti, che potremmo definire “inter-mediale”, finalmente non più gerarchizzata da un punto di vista disciplinare o estetico.
Tale rinnovamento restituisce nuovi stimoli e interessanti risultati, nella produzione di film documentari sulle vicende della prima metà del Novecento come per esempio l’allestimento di alcune esposizioni temporanee coadiuvate da approfondite ricerche dedicate alla cultura durante il fascismo e ai suoi significati veicolati dalle immagini. L’immaginario del fascismo, in particolare attraverso il case study dell’istituto LUCE, e tutto ciò a cui si connette, sul piano nazionale e internazionale della politica e della cultura, è tuttavia una ricostruzione che allo stato attuale degli studi pare però essere ancora all’inizio delle sue potenzialità[1]. Nei musei – ad eccezione per certi versi delle modalità espositive multimediali messe in atto al Museo del Novecento di Firenze, alla GAM di Roma, al Mart di Rovereto[2], o in alcune recenti esposizioni tenute ad esempio alla Fondazione Prada a Milano[3] – prevale ancora la frammentazione e la decontestualizzazione espositiva con ricostruzioni delle vicende novecentesche non sempre dialoganti in cui vengono messi a confronto pittura, scultura e design, mentre fotografia, film, materiali sonori e cartacei fino a quelli televisivi, restano spesso chiusi negli archivi o ignorati.
Alla recente mostra milanese “Post Zang Tum Tuum: l’arte in Italia dal 1918 al 1943”, curata da Germano Celant, era presente un’ampia rassegna di materiali fotografici e filmati di cinegiornali dell’Istituto Luce opportunamente mirata ad una logica di utilizzo documentario ed espositivo integrato – decisamente inedito, che avremmo visto con favore pensato e realizzato da un’istituzione pubblica come ad esempio la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Nella mostra milanese le fonti foto-cinematografiche – per la prima volta in quantità e dimensione – si sono amalgamate dialogando con l’enorme mole di materiali esposti, avendo l’obiettivo di rovesciare il tradizionale approccio in cui è il manufatto “artistico” a prevalere sulle testimonianze documentarie[4]. L’effetto complessivo, che non mancherà probabilmente di fare scuola, consente di capire più in profondità quanto il ruolo della civiltà foto-cinematografica del regime, prodotta dal LUCE, potente macchina per alimentare il consenso fondata nel 1924 (L’Unione Cinematografica Educativa) dal giornalista Luciano De Feo – e presieduta dal 1934 da Giacomo Paulucci di Calboli – sia fondamentale anche per un’indagine critica articolata del complesso – e di per sé integrato – panorama delle arti visive nella società italiana tra le due guerre. Lo sfruttamento della comunicazione cinematografica ai fini del consolidamento del consenso messe in atto dal regime (e dunque anche i cinegiornali) sono state spesso analizzate sia per la loro struttura cinematografica sia per le loro caratteristiche socio-politiche, sottolineando gli aspetti della deformazione monodirezionale della notizia in cui informazione, ideologia e cultura erano plasmati per trasmettere il messaggio propagandistico. Per quanto riguarda la possibilità d’indagine circa il valore contenutistico dei cinegiornali riguardo alle arti visive la loro importanza è stata fin ora a torto piuttosto ignorata[5]. Essa risiede soprattutto nella quantità, qualità e nel significato della testimonianza “dal vivo” dell’investimento in arte (e in architettura), del ruolo sociale e di quanto esso fosse importante per il regime che voleva comunicare in maniera diretta e pervasiva l’idea di un paese in continuo progresso, che puntava al “primato spirituale, letterario e artistico della Nazione[6]. L’abbondanza di questo materiale di informazione e cronaca artistica (1500 cinegiornali rintracciabili con i lemmi arte/mostre/musei) sul portale del LUCE – compresi quelli realizzati dalla “Cinemateca per l’arte e l’istruzione religiosa” (costituita nel 1926), riguarda quindi un vasto ambito che comprende siti archeologici, musei, esposizioni temporanee a cui andrebbero aggiunti quelli assai cospicui riguardo alle trasformazioni architettoniche del ventennio. Una mole di immagini in movimento in grado di rendere familiare ad un pubblico, mai raggiunto prima, la visione delle arti e del patrimonio della nazione, contribuendo al di là dei limiti della rappresentazione e della correttezza critica, una “educazione” culturale e del gusto finalizzata all’accettazione del “moderno”. Questo materiale di cronaca non era per altro una declinazione secondaria dello slogan politico e culturale: “la cinematografia è l’arma più forte” lanciato dal Duce, sin dalla prim’ora del regime, che campeggiò nella sua definitiva ufficializzazione scenografica durante la cerimonia di posa della prima pietra della nuova sede del LUCE, progettato da Busiri Vici, avvenuta il 10 novembre 1937, al quartiere del Quadraro di Roma, lungo la via Tuscolana.
La paternità del celebre slogan – abbiamo appreso – non ha però la primogenitura mussoliniana che si potrebbe ritenere, ma va attribuito – a quanto affermano Vito Zagarrio e altri studiosi, all’ambigua traslitterazione di una celebre frase di Lenin che l’aveva pensata per l’elettrificazione delle ferrovie russe, in linea con la celebre equazione del 1919: «Socialismo è = Soviet + elettricità»[7].
Modello sovietico – per quanto riguardava il ruolo innovatore del cinema – che era stato visto con ammirazione, e anche una certa invidia, da parte di Mussolini e dai suoi consiglieri culturali che ne avevano intuito sin dai primi anni ’20 l’enorme potenzialità del mezzo, tanto da divenire una delle principali imprese di finanziamento del regime concretizzandosi nell’edificazione di Cinecittà, del Centro sperimentale di cinematografia e appunto l’Istituto nazionale LUCE[8]. Luciano De Feo ricordò così nel 1936 l’impresa mussoliniana:“Il Regime Fascista seppe per primo, ad opera del suo Capo, limpidamente comprendere e antivedere quello che potesse significare per il popolo, l’arma magnifica e terribile dello schermo, atta a creare e forgiare gli spiriti, o a deprimerli, a volontà, a seconda della mentalità di chi intenda usarla ed a seconda che, allo schermo, si voglia dare una veste di mercantilismo puro od un senso di alta spiritualità”[9].
Il cinema arma più forte che si rivelò tuttavia a doppio taglio, come ben sappiamo, “una delle aree più contraddittorie della cultura fascista, specie per il fatto che è il più nuovo dei mass media e gli si attribuisce dunque un ruolo centrale nella costituzione della nuova identità italiana”[10], da un lato strumento di suggestione propagandistica e controllo di massa, sviluppatasi anche a seguito del crescente consenso al regime, dall’altro lato strumento che si sarebbe ritorto contro il fascismo già nelle ultime fasi del conflitto: “il cinematografo arma pericolosissima” – così si legge in una nota del MinCulpop del 18 aprile 1943 – le masse leggono poco e vanno al cinema, assorbendo facilmente il veleno propinato”[11], per diventare lo specchio identitario delle condizioni in cui versava la nazione, capace di mostrare le sue ferite a seguito della capitolazione bellica, con le narrazioni neo-realiste dell’immediato dopoguerra.
L’arma più forte della propaganda si trasformò – grazie a film come “Roma città aperta” e “Paisà “ di Rossellini – in arma critica e rivelatrice in grado di far aprire gli occhi sulla realtà del tracollo del regime e le conseguenze dell’occupazione dell’alleato nazista divenuto in breve tempo feroce nemico da combattere. Dalla propaganda alla presa di coscienza.
I filmati del LUCE per gli anni 1927 – 1945 assumono dunque un ruolo chiave che dimostra e potenzia e il valore che questi materiali hanno quali fonte per contribuire alla ricostruzione di aspetti rilevanti non solo della politica e delle articolate forme della propaganda ma anche in generale della cultura, della storia dell’arte e dell’architettura del ventennio, soprattutto per le modalità degli allestimenti delle opere che ha permesso alla mostra milanese di trasformarsi in un riuscito tentativo di “re-enactment”.
I filmati del LUCE fanno parte dell’arsenale delle armi cinematografiche del regime che possiamo dire pionieristicamente “televisive”, nel senso etimologico del termine. L’uso del termine “televisione” , mutuato da quello della “telecinematografia”, era giunto ufficialmente alla ribalta già nel 1935 quando l’IICE (dell’Istituto Internazionale del cinema educativo) promosse e organizzò a Nizza il primo congresso mondiale sulla Televisione, affidandone la presidenza a Louis Lumière che le cineprese del LUCE avevano già ripreso nel 1929 in visita al villino medievale di Villa Torlonia sede – appunto dell’IICE – nonché residenza del Duce.
Ma cosa vediamo tramite “l’occhio del regime” nei cinegiornali Luce sui temi delle arti – per citare un fondamentale studio di Mino Argentieri[12]?
Può essere utile ricordare – proprio a quanto riporta Argentieri – che Mussolini verificava personalmente – il martedì di ogni settimana – le quattro edizioni del cinegiornale, per la congruità e l’efficacia del variato palinsesto informativo, che doveva essere somministrato alla nazione. Ciò avveniva nell’apposita sala cinematografica dell’IICE di Villa Torlonia da 400 posti, dove ai figli del duce si concedeva, in altri orari, la visione dei cartoni animati di Topolino[13].
Cosa vediamo del museo, dell’architettura, del design, delle mostre degli studi degli artisti?[14].
La generale funzione popolare ed educativa dei cinegiornali fa rilevare che la finalità principale era quella della celebrazione declamata delle attività culturali del regime le grandi esposizioni (Biennale, Triennale, Quadriennale), ma anche i premi artistici non secondari come il Cremona[15] e Sanremo, fino ai Littoriali dell’arte. Molto indicativo del potere selettivo del cinegiornale è l’assenza nella cineteca del LUCE di riprese riguardanti il Premio Bergamo, promosso da Bottai, rispetto ai numerosi filmati dedicati Premio Cremona, promosso da Farinacci. L’obiettivo, sottolineato nei commenti sonori, era mostrare il primato delle attività artistiche italiane; mostrarle perché presenziate quasi sempre svogliatamente dal Duce – sia in vesti civili da capo del governo, sia un quelle del capo militare – oppure presenziate dai gerarchi, Bottai e altri, ma assai meno dal Re e consorte; in una prospettiva di informazione istituzionale governativa che doveva essere diffusa nella coscienza delle migliaia di spettatori che si sedevano nelle tante sale cinematografiche del Regno.
Producendo un ideale smontaggio critico-tematico si possono enucleare almeno tre linee su cui ipotizzare in futuro un lavoro più ampio e articolato di mappatura e studio filmologico di questi materiali per la realizzazione anche di documentari ad hoc. Linee di ricerca indotte da domande che scaturiscono da una prima, seppur attenta, osservazione:
- Quali presenze e quali assenze, quali le modalità di ripresa delle opere esposte nelle mostre cosa, come e perché vengono filmate? Sarebbe utile in questo senso realizzare un repertorio di découpage su ciò che si vede nelle cronache artistiche da integrare con le foto dei cataloghi delle esposizioni, ma anche altri materiali opportunamente recentemente digitalizzati come il Radiocorriere per l’incrocio con informazioni riguardanti le cronache radiofoniche[16].
- Quali artisti vengono mostrati e in che modo? Come vengono commentati o presentati? Con quale lessico, con quale testo scritto nei cartelli didascalici ove presenti, quando ancora non era presente il sonoro, quale il fine della selezione.
- La presenza del Duce e dei gerarchi – in occasione degli avvenimenti artistici è caratterizzata da una prassi di osservazione delle opere esposte che potremmo definire da parata e d’occasione: sbrigativa, superficiale che fa prevalere l’immagine “estetizzata” e narcisistica del capo, la vera punta dell’arma cinematografica, visibilità unica e assolutizzante, del volto del Duce, una sorta di opera d’arte corporea, voluta dalla strategia comunicativa dell’Istituto, secondo la linea dominatrice dello sguardo che rendeva lo spettatore partecipe della giornata del dittatore, gratificandolo nel vedere senza essere visto (caratteristica archetipica del cinema), posto però in una posizione psicologica dominata che non prevedeva dialogo o replica rispetto al materiale filmico proiettato. La dimensione gerarchizzata dell’informazione, propinata tramite il mezzo cinematografico, si riproporrà in seguito – in forme diverse e più sottili – con il mezzo televisivo nel dopoguerra.
Concluderò queste mie osservazioni e domande propedeutiche ad un lavoro articolato su questo materiale, con la descrizione di una singolare sequenza di espressività emotiva, estraibile dal cinegiornale muto che riprende la prima quadriennale di Roma, del gennaio 1931.
In essa si vede il pittore Ardengo Soffici accogliere Mussolini nella sala dedicata ai dipinti dell’artista toscano. Si comprende che egli vorrebbe confidenzialmente illustrare le opere esposte. Le immagini filmate sono impietose nel mostrare la superficiale espressione del Duce che guarda distratto le tele per volgere immediatamente le spalle all’artista che ne resta visibilmente contrariato (fig.1-2). Anche da dettagli come questi è possibile risalire ad un clima di rapporti empatici non sempre rintracciabili tramite altre fonti[17]. Tenendo presente la continuità dei materiali filmati dell’Istituto nazionale LUCE tra le due guerre e la loro struttura – un esempio emblematico è la serie “Artisti italiani, 5 minuti con” (1940- ‘43), che inaugura il formato delle visite negli studi degli artisti italiani poi ripresi dalla RAI nei secondi anni ’50 – sarebbe interessante iniziare a tracciare una storia cine-visuale dell’arte italiana (e non solo) che utilizzi queste importanti fonti del ‘900 che – per varie ragioni – non sono ancora state pienamente e criticamente considerate[18].
[1] D. Calanca, Bianco e nero, l’Istituto Nazionale Luce e l’immaginario del fascismo (1924-1940), Bologna, Bononia University Press, 2016; S. Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, Catanzaro, Rubettino, 2003; L. Malvano, Fascismo e politica dell’immagine, Torino, Bollati Boringhieri, 1988.
[2] Si veda in particolare l’allestimento delle fonti audiovisive alla mostra: La guerra che verrà, non è la prima, catalogo della mostra Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, 4 ottobre 2014 – 20 settembre 2015, a cura di Nicoletta Boschiero; Denis Isaia; Marcello Fois, Milano Electa, 2014.
[3] Post zang tumb tuuum, art life politics : Italia 1918-1943, a cura di Germano Celant, Fondazione Prada, Milano, 8.02.2018-25.06.2018, Milano 2018; TV 70 – Francesco Vezzoli guarda la RAI, a cura di C. Costa e F. Vezzoli catalogo della mostra, Fondazione Prada, 9 maggio 2017-24 settembre 2017, Milano, 2017.
[4] R. Ben-Ghiat, Moving images, realism and propaganda, in Post zang tumb tuuum Cit., pp. 382-387, della stessa studiosa Fascist modernities, Italy, 1922 – 1945, Berkeley 2001.
[5] Un’eccezione è rappresentata dallo studio di S. Mandolesi, L’Istituto Nazionale Luce e l’informazione artistica nei cinegiornali dal 1929 al 1939, in «Ricerche di storia dell’arte», 73, 2001, pp. 89-97.
[6] G. Pettena, Architettura e propaganda fascista nei filmati dell’Istituto Luce, Roma 2004, pp. 10-12.
[7] V. Zagarrio, Primato, arte, cultura, cinema del fascismo attraverso una rivista esemplare, Roma 2007, p. 24.
[8] V. Zagarrio, Cinema e fascismo, film modelli e immaginari, Venezia 2007, pp. 59-75.
[9] L. De Feo, cit. in V. Zagarrio, Cinema e fascismo…, cit., p. 9.
[0] V. Zagarrio, Primato…, cit. p. 200.
[11] Ibidem, p. 204.
[12] M. Argentieri, L’occhio del regime, Roma 2003.
[13] M. Argentieri, Schermi di guerra: cinema italiano 1939-1945, Roma 1995, p. 184.
[14] T. Casini, Mostre e musei nei cinegiornali dell’Archivio Luce tra le due guerre, in Musei e mostre tra le due guerre a cura di S. Cecchini e P. Dragoni, in “Capitale Culturale Studies on the Value of Cultural Heritage”, 14, 2016, pp. 407-427, Url:
https://riviste.unimc.it/index.php/cap-cult/article/view/1395
[15] Il Regime dell’Arte – Il Premio Cremona 1939-1941, a cura di R. Bona e V. Sgarbi, Museo civico di Cremona, Cremona, 2018.
[16] Url: http://www.radiocorriere.teche.rai.it/Default.aspx
[17] Giornale Luce A0710 del 01/1931, Roma. S. E. il Capo del Governo assiste alla “Vernice” della prima Quadriennale d’Arte Nazionale, sequenza dal 1’:09’’ a 1’:33’’, Url: https://www.youtube.com/watch?v=yc7VTw3Grmk.
[18] In questa direzione metodologica si è mosso il regista Massimo Martella per la realizzazione della pregevole docufiction Nel nome di Antea, Cinecittà Luce, 75’, 2018: https://www.youtube.com/watch?v=DMP7WrtwDBY, riguardo alle vicende dell’arte in guerra.